Il 24 giugno del 1944 nasceva a Wallington, Surrey (Regno Unito) Geoffrey Arnold Beck, conosciuto più semplicemente come Jeff Beck. Jeff rientra in quel magico cerchio di nomi, talmente altisonanti e noti, da essere immediatamente collegabili allo strumento che hanno suonato per una vita intera. Questa è la classe di Jimi Hendrix, di Eric Clapton, di Jimmy Page, di Brian May e pochissimi altri. I migliori chitarristi elettrici della storia, insomma, quelli che hanno scritto i riff, gli assoli e i brani che contano davvero.

Jeff Beck dal vivo nel 2022, © Ross Cowan, CC BY-NC 2.0

Jeff Beck, il chitarrista dei chitarristi

Eppure, si potrebbe obiettare che questo non sia poi così vero: in fondo, quanti brani megahit ha scritto Beck? Quanti dischi da milioni di copie ha venduto? I nomi di cui sopra possono vantare carriere e riconoscimenti da capogiro, ma si può dire lo stesso di Beck? Se chiedessimo a cento persone a che cosa pensano sentendo il nome “Jeff Beck”, quanti risponderebbero “a una chitarra”?

Forse, effettivamente, la permanenza nell’immaginario culturale collettivo di Jeff Beck è molto minore di quanto meriterebbe la sua figura. Per intenderci, di quelle cento ipotetiche persone scelte per la nostra domanda, forse solo una ventina risponderebbero citando il nostro amato strumento. Tuttavia, l’appartenenza di Jeff all’élite di chitarristi a cui facevamo riferimento è una cosa più che certa, che non viene messa in discussione da questo nostro esperimento mentale. Anzi, è una realtà confermata in particolar modo proprio dai suoi colleghi.

Jeff è stato infatti letteralmente una divinità della sei corde, citato e ammirato da una lista lunghissima di guitar hero che hanno fatto epoca e che hanno speso, per lui e per il suo stile, parole al miele. Questa lista include, tra gli altri, artisti come Steve Lukather, Ronnie Wood, Ritchie Blackmore, The Edge, Joe Perry, Zakk Wylde, Slash, David Gilmour, Stevie Ray Vaughan e anche tre dei magici nomi già citati in precedenza: Clapton, Page e May. Trovate a questo link la raccolta di queste testimonianze, che giustificano una definizione che è stata utilizzata più volte per descrivere Jeff Beck: “il chitarrista dei chitarristi”. Jeff era insomma il punto di riferimento degli addetti ai lavori. Era quello a cui tutti guardavano per lasciarsi ispirare, per rimanere a bocca aperta e per farsi stupire ancora dalle potenzialità di uno strumento elettrico che pensavano di conoscere già più che bene.

Nell’elenco degli ammiratori di Beck mancava solo il quarto nome della magica cerchia. Se, infatti, non sappiamo esattamente cosa ne pensasse Hendrix di Beck (anche se possiamo essere certi che almeno per una sera suonarono assieme), sappiamo che impatto ebbe Jimi su Jeff:

“Quando ho visto Jimi abbiamo capito che sarebbe stato un problema. E con il plurale “noi” intendo io ed Eric [Clapton], perché Jimmy [Page] a quel punto non era ancora in gioco. Lo vidi in una delle sue prime esibizioni in Gran Bretagna e fu davvero devastante. Fece tutti i trucchi più spettacolari: diede fuoco alla chitarra, fece dei salti mortali su e giù per il manico, utilizzò tutta la grande abilità scenica per mettere il chiodo finale sulla nostra bara. Avevo lo stesso temperamento di Hendrix in quanto a ‘ti distruggo’, ma lui lo fece in un contesto perfetto, con canzoni bellissime.”

Hendrix colpì Beck fin dalla prima volta che lo vide e lo sentì, tanto da definirlo come “una bomba che esplode nel posto giusto”. Jeff sicuramente fu sopraffatto da Jimi, ma, nel tempo, ha dimostrato più e più volte di aver appreso la sua lezione. Basti pensare, ad esempio, a come suonava le canzoni del chitarrista di Seattle. Ecco una sua brevissima interpretazione di Little Wing, cover quasi sempre presente nella scaletta dei suoi concerti:

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L’uso dei tempi al passato ci ricorda purtroppo una triste verità: Jeff ci ha lasciato nel gennaio dello scorso anno, a 78 anni. Oggi il leggendario chitarrista inglese avrebbe festeggiato il suo ottantesimo compleanno e noi abbiamo deciso di omaggiarlo suonando Brush With the Blues. Guardate il video tributo realizzato dal nostro Paul Audia di Guitar Tutorials.

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Uno sperimentatore della chitarra

Dalle origini agli Yardbirds

Il modo migliore per scoprire qualcosa in più della vita e della straordinaria carriera di Jeff Beck, è guardare il documentario Still On The Run – The Jeff Beck Story, che vi consigliamo assolutamente di recuperare. In ogni caso, eccovi alcuni cenni sulla sua biografia estratti da quel racconto.

La madre di Jeff era pianista, ma il giovane, dopo aver sentito Art Tatum, capì che per quello strumento il più era stato fatto, o almeno così gli sembrava. Non si poteva dire lo stesso per la chitarra, in cui mise tutto sé stesso. La radio in casa sua era sempre accesa. Come molti altri ragazzi inglesi suoi coetanei, Jeff iniziò a fantasticare sulle note di  How High The Moon di Les Paul e Mary Ford, oppure sugli assoli del primo rock ‘n’ roll, suonati ad esempio da Cliff Gallup, chitarrista di Gene Vincent nella sua band, i Blue Caps.

Molti anni dopo, poi, Beck tributerà quell’artista e i suoi musicisti, registrando l’album Crazy Legs con i Big Town Playboys. Anche i film entrarono ovviamente negli occhi e nella mente di Jeff, come The Girl Can’t Help It, con la sua straordinaria colonna sonora che includeva brani di Eddie Cochran, Fats Domino e Little Richard. Tutto, insomma, arrivava dall’America. 

L’incontro con il coetaneo Jimmy Page, nel periodo dell’adolescenza, mise in contatto due anime affini. Le due future rockstar si divertivano ad ascoltare i dischi, per cercare di capire come i chitarristi suonavano alcuni assoli e come ottenevano certi suoni. Era il caso di James Burton, chitarrista di Ricky Nelson e, in seguito, anche di Elvis Presley. Si impegnavano, ad esempio, a studiare il suo playing in My Babe.

Il primo successo arrivò con gli Yardbirds, in un momento chiave per lo sviluppo dell’hard rock inglese e per Beck come chitarrista. Per saperne di più, vi invito a leggere questo nostro articolo, che racconta e coglie perfettamente un momento irripetibile nella storia della musica e della chitarra, con il passaggio da Clapton a Beck e l’incrocio ancora con Page in quella formazione, immortalato anche nel film Blow-Up di Michelangelo Antonioni.

Per chi invece volesse passare subito alla musica, può bastare invece l’ascolto di due successi di quel periodo: Heart Full of Soul e la straordinaria Shapes of Things. Quest’ultimo brano fu registrato negli Stati Uniti, la Terra Promessa per quei giovani musicisti, nei leggendari studi della Chess Records, la casa di molti dei loro eroi musicali. (Vi abbiamo già brevemente parlato qui di quella magnifica casa discografica e dei suoi artisti). Già all’epoca, Beck sperimentava con la sua chitarra e cercava di trovare suoni nuovi, per questo era diverso da tutti gli altri. L’assolo di Shapes of Things, infatti, mirava a riprodurre suoni simili a quelli del sitar di Ravi Shankar, noto in quel periodo per la sua collaborazione con i Beatles e l’amicizia con George Harrison.

Gli Yardbirds nel 1965. Jeff è il primo in alto a sinistra, Public Domain

I due Jeff Beck Group

Poi, di punto in bianco, Beck lasciò il gruppo, insoddisfatto della traiettoria che stava prendendo. A quanto pare, la partecipazione degli Yardbirds al Caravan of Stars nel 1966, manifestazione itinerante che raccoglieva molti artisti e girava l’America, lasciando spazio per due/tre brani a serata per ciascuno, non piacque molto al nostro Jeff.

L’artista però non si fermò affatto e, con il Jeff Beck Group e l’album Truth del 1968, mise le basi per tutto l’hard rock di stampo inglese a venire. Questa formazione, che includeva Ronnie Wood al basso, Rod Stewart alla voce e Mick Waller alla batteria, ebbe un successo clamoroso. Anche il debutto negli Stati Uniti, al Fillmore East di New York nel 1968, fu devastante, con il gruppo che ottenne un gran successo di pubblico e critica e che si ritrovò, qualche mese dopo, a suonare al Fillmore West di San Francisco. Da costa a costa, Jeff e i suoi avevano conquistato l’America.

Beck in questo primo disco canta anche da solista in Hi Ho Silver Lining, ma capisce subito che non era quello che voleva: non gli interessava diventare una pop star. L’idea del manager e produttore Mickey Most non faceva per lui. Il gruppo proseguì l’attività in studio con l’album Beck-Ola, di cui vi proponiamo l’ascolto di Plynth (Water Down the Drain). Il brano ospita al piano anche un altro musicista leggendario, noto sicuramente agli appassionati: Nicky Hopkins. Per respirare un po’ dell’atmosfera dello studio, durante la registrazione di quel disco, guardate qui.

Con questi due dischi Jeff aveva già messo definitivamente il suo nome nell’immaginario rock e mancava forse solo un ultimo passo. Quale occasione migliore del Festival di Woodstock? Peccato che il gruppo, poche settimane prima dell’evento poi divenuto leggendario, collassò. Jeff sparì, tornò a casa sua e non si fece più vedere. A distanza di anni però il musicista non si pentì di questa decisione. Vedendo il documentario dedicato al Festival si rese conto di aver fatto la scelta giusta. A suo dire, era stato giusto non partecipare e non essere “congelato nel tempo” con quell’evento. Beck, in fondo, ha sempre rifuggito il successo e la fama, rimanendo una persona schiva e tranquilla, amante della sua privacy e intimità.

Nel mentre, però, Rod Stewart entrò nei Faces e Beck si trovò senza un frontman per la sua band. Nessun problema: nel 1971 risorge il Jeff Beck Group, prima con il disco Rough and Ready e poi, nel 1972, con un album self-titled soprannominato “the Orange Album”, per la presenza di un’arancia sulla copertina. Questo secondo lavoro è inoltre prodotto da Steve Cropper. La formazione per questi due album è completamente nuova, con Cozy Powell alla batteria (tra l’altro molto simile somaticamente a Jeff), Max Middleton alle tastiere, Clive Chaman al basso e Bobby Tench alla voce.

Il Jeff Beck Group dal vivo nel 1972, © Carl Guderian, CC BY-NC-SA 2.0

L’incontro con Stevie Wonder e la svolta strumentale

Poi, arrivò la collaborazione Stevie Wonder. Lookin’ For Another Pure Love, incluso nell’album Talking Book del leggendario musicista afroamericano, vanta infatti la presenza della chitarra Jeff. È proprio Stevie a lasciare spazio al chitarrista, con un sussurrato “Do it Jeff”. Superstition, uno dei più grandi successi di Wonder, secondo Beck nacque da una parte di batteria che lui stava suonando (sì, avete letto bene) in studio tra una registrazione e l’altra. Stevie apprezzò tantissimo e poi la registrò con altri musicisti. Ma non dimenticò mai il contributo fondamentale di Jeff, tanto che poi suonò con lui proprio quel brano per la performance del 2009 per il venticinquesimo anniversario della Rock and Roll Hall of Fame.

Dopo la parentesi con il progetto Beck, Bogert & Appice, sostanzialmente un power trio formato con Tim Bogert e Carmine Appice, che portò alla realizzazione di un solo album in studio e di uno live registrato in Giappone (sì, proprio come fecero i Deep Purple), disco che si apre tra l’altro proprio con una cover di Superstition, Beck era già pronto per un’altra tappa della sua carriera.

Gli serviva però un’illuminazione, che arrivò ancora una volta grazie alla musica e all’ascolto di un altro artista leggendario. Questa volta il responsabile fu Miles Davis. Il brano era Right Off, incluso in quello che era un disco tributo a Jack Johnson e la chitarra la suonava John McLaughlin. Fu quella la svolta: Beck capì che c’era spazio per un progetto solo strumentale e “chitarrocentrico”, che non aveva bisogno di un frontman o di un vocalist. Da lì a Blow by Blow il passo fu breve.

Jeff Beck dal vivo con Tim Bogert nel 1973, © Heinrich Klaffs, CC BY-NC-SA 2.0

Il disco, uscito nel 1975 e prodotto da George Martin, già mente dietro ai Beatles, aveva quindi una chiara ispirazione jazz fusion e guardava a sonorità di gruppi come la Mahavishnu Orchestra. Il contributo di Martin si può poi notare negli arrangiamenti, come ad esempio in quello di Scatterbrain, che include un’orchestra con archi. Stevie Wonder si ricordò della collaborazione con Jeff e gli regalò ben due brani: Thelonius e Cause We’ve Ended as Lovers. Questo pezzo, dedicato a Roy Buchanan, è l’apice dell’intero disco: la chitarra di Beck è lirica e lui riesce a farla cantare come nessun’altro.

Anche con il successivo Wired Beck riuscì a ripetersi. Con la sua interpretazione di Goodbye Pork Pie Hat di Charles Mingus, il chitarrista inglese dimostrò ancora di sapersi mettere sulle tracce del grande jazz, per poi farlo suo. Mingus gli scrisse poi una lettera per complimentarsi, ulteriore dimostrazione di come il chitarrista inglese avesse fatto davvero centro. In quel disco però troviamo anche Blue Wind, dal riff semplicissimo, con batteria e tastiere di Jan Hammer. Un altro pezzo perfetto per mostrare le doti da solista di Jeff.

Gli anni Ottanta

La collaborazione con l’ex-membro della Mahavishnu Orchestra proseguì anche per un disco live e per il successivo lavoro in studio, targato 1980. In There & Back, oltre ad uno dei miei brani preferiti, The Pump, potete ascoltare il contributo di Hammer nella spaziale Star Cycle, un’altra grande sperimentazione di Jeff.

Negli anni Ottanta sono molte le collaborazioni con altri artisti. La reunion con Rod Stewart per l’album Camouflage (nel video Jeff suona una Jackson Soloist), con Tina Turner per Private Dancer, con Diana Ross per Swept Away e con Mick Jagger per She’s the Boss e Primitive Cool. L’album Flash fu inoltre un’unicum nella carriera solista di Back. La gran parte dei brani avevano infatti una voce, prevalentemente quella di Jimmy Hall, anche se sicuramente l’apice del disco è la cover di People Get Ready di Curtis Mayfield, ancora con Rod Stewart.

Jeff Beck dal vivo con Jimmy Hall nel 2016, © Shannon Kringen, CC BY-SA 2.0

Beck tornò ai suoi massimi livelli proprio alla fine di quella decade, con l’album del 1989 Jeff Beck’s Guitar Shop. In quel meraviglioso disco, registrato con Tony Hymas alle tastiere e Terry Bozzio alla batteria, Jeff ripropone la formula del power trio, riveduta e corretta con la tastiera al posto del basso. Provate ad ascoltare Big Block, per rendervi conto della potenza dei tre musicisti. Beck suonava ormai da tempo senza plettro e aveva puntato tutto sulla Stratocaster, strumento in grado di catturare tutte le sfumature e le pieghe del suo playing.

Con quale altra chitarra si sarebbe mai potuto suonare un brano come Where Were You, se non con una Strat? Questo era, tra l’altro, uno dei pezzi preferiti di Richard Wright dei Pink Floyd, tanto che poi Beck la suonò al funerale del grande tastierista. La copertina di quel disco ci racconta un altro lato dell’artista Beck. Lo vediamo sistemare un’enorme chitarra, in quella che sembra una sorta di officina personale, in un atteggiamento che richiama proprio quello che Jeff aveva anche con le sue amate hot rod, che acquistava e aggiustava nella sua casa. Beck è stato un grande sperimentatore e “artigiano” delle possibilità espressive della chitarra, che ha sempre portato in spazi ancora inesplorati.

Una copia in vinile di Jeff Beck’s Guitar Shop, © badgreeb RECORDS, CC BY-SA 2.0

Una continua ricerca di suoni e collaborazioni

Jeff non ha mai perso questa sua grande caratteristica e ha sempre continuato ad ascoltare e a far sue altre sonorità. Nadia, ad esempio, inclusa in You Had It Coming del 2000, era un brano di Nitin Sawhney che potrebbe sembrare lontanissimo da Beck, ma non è stato così.

Anche la musica classica è passata tra le orecchie e le mani di Jeff, fin dal Beck’s Bolero di fine anni Sessanta, ispirato da Ravel, per arrivare alla sua versione di Nessun Dorma. La celeberrima romanza di Giacomo Puccini ha trovato dimora e nuova linfa nella sei corde del musicista inglese, che l’ha inclusa nel suo lavoro del 2010, Emotion & Commotion.

Beck ha poi dato spazio anche a tanti altri musicisti nel corso della sua carriera, collaborando anche con moltissime donne. Alla voce ha ospitato Imelda May, Joss Stone e Beth Hart, al basso ha collaborato con la giovanissima Tal Wilkenfeld e con Rhonda Smith, ma anche con Carmen Vandenberg alla chitarra. Con quest’ultima, e con Rosie Bones alla voce, ha poi inciso il suo ultimo effettivo album da solista, il bellissimo Loud Hailer del 2016. The Revolution Will Be Televised e Scared For The Children sono due grandi esempi del Beck ormai maturo.

Anche il suo ultimo disco in studio nasce dal frutto di una collaborazione, quella con l’amico Johnny Depp. 18 è il testamento del musicista inglese ed è un rilancio della carriera per l’attore hollywoodiano. Io ho avuto la fortuna di vederli entrambi dal vivo il 18 luglio del 2022, in un memorabile concerto al Festival del Vittoriale Tener-a-mente di quell’anno, che ricorderò per sempre.

Negli anni 2000, poi, è stato anche il momento di suonare ancora una volta assieme a due amici, sempre due nomi appartenenti alla magica cerchia che citavamo a inizio articolo. Con Clapton restano memorabili le due intepretazioni di Little Brown Bird and You Need Love, due brani di Muddy Waters. In realtà, tutto quel Live at Ronnie Scott’s del 2007 è probabilmente la miglior testimonianza di Jeff Beck dal vivo. Nello storico jazz club londinese, il chitarrista diede il meglio di sé, raggiungendo un punto apicale della sua carriera.

Jeff Beck dal vivo con Eric Clapton nel 2009, © Alex G, CC BY 2.0

Con Page, invece, è l’esibizione alla Rock and Roll Hall of Fame del 2009 che è rimasta nella storia. Il premio per la sua induzione fu consegnato a Beck proprio da Jimmy, che poi si unì a lui sul palco per suonare Immigrant Song, praticamente senza averla mai provata prima assieme, e per Beck’s Bolero, rievocando i fasti della loro giovinezza.

Una carriera che attraversa sette decenni, quella di Beck, con un unico disco pubblicato a suo nome negli anni Novanta.

Jeff Beck dal vivo nel 2009, © Alex G, CC BY 2.0

Who Else! e Brush With the Blues

L’unico album in studio degli anni Novanta di Beck contiene la prima presenza di musica elettronica e techno nel suo repertorio, insieme al rock strumentale basato sul blues e sul jazz fusion degli album precedenti. In Who Else! del 1999 la chitarrista Jennifer Batten, che ha spesso citato l’influenza di Beck sul suo modo di suonare, è presente come collaboratrice e in seguito si è unita a lui in tour per tre anni. L’album vanta ancora anche la collaborazione di Tony Hymas, che torna dopo Guitar Shop, nella stesura delle canzoni.

Lo iato di dieci anni rispetto al precedente disco venne analizzato da Beck in questa bellissima intervista di Chris Gill per Guitar World. Qui il chitarrista inglese si confessa in modo molto genuino e sincero.

“Perché ci ho messo 10 anni per uscire con un nuovo album? Ho avuto distrazioni, deviazioni, ogni genere di cose. Gli ultimi nove anni sono stati duri per la musica. Ha saltato da una parte all’altra come una volpe.

Non riuscivo mai a capire dove sarebbe andata a parare. Ero anche molto depresso per non essere riuscito a tenere insieme la band originale di tre elementi: io, Tony Hymas e Terry Bozzio. Era un gruppo che funzionava benissimo. E l’idea era grandiosa: Tony avrebbe potuto fare il matto alle tastiere e occuparsi del basso, della ritmica e di tutto il resto.

Purtroppo non abbiamo ottenuto la dimensione che volevamo. Dopo il tour iniziale, l’incapacità dell’album [Guitar Shop] di fare qualcosa di più di un piccolo successo è stata molto deprimente. Ci abbiamo lavorato molto. Tenete presente che Guitar Shop era anche un album di avvio, dopo un altro lungo periodo di assenza di produzione da parte mia. Stavo facendo molto per altre persone e ho pensato: ‘Beh, posso guadagnarmi da vivere facendo questo’.

Così sono entrato in questa modalità piuttosto scomoda ma rilassata. Purtroppo, più sei amico di chi lavora con te, meno vieni pagato. Spesso facevo cose per niente perché erano miei amici. Ero anche molto disilluso dal mio modo di suonare. Sapevo che c’erano altri chitarristi che stavano nascendo dietro l’angolo e che sapevano suonare davvero.”

Un Beck quasi depresso, insicuro e titubante, che riuscì però a riprendersi e ad incidere, tra gli altri, un brano come Brush With the Blues, diventato poi un punto fermo dei suoi concerti. Il brano, di oltre 6 minuti, è un concentrato purissimo dello stile di Beck. Delicato e misurato, ma anche estremamente  rock e aggressivo quando è il momento giusto, sempre padrone dello strumento e di ogni nota suonata. Un concentrato della sua maestria e della sua classe.

La strumentazione: dalla Stratocaster alla Les Paul e oltre

Dato per assodato che suonare come Jeff è praticamente impossibile, vi diamo qualche consiglio per avvicinarvi al suo suono, magari partendo dalla strumentazione.

Jeff Beck è uno dei pochissimi chitarristi che ha avuto un grandissimo riconoscimento da due dei più importanti produttori di sei corde della storia. Sia Fender che Gibson, infatti, hanno prodotto uno strumento signature dedicato all’artista inglese. Potete acquistare la Jeff Beck Strat, in finitura Olimpic White o Surf Green, e scegliere la versione della Artist Series o addirittura una Custom Shop.

Fender Jeff Beck Strat OW

Fender Jeff Beck Strat OW

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Fender Jeff Beck Custom Shop SFG

Fender Jeff Beck Custom Shop SFG

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Fender ha poi anche tributato ulteriormente Jeff con una limitatissima riproduzione della sua Esquire, per cui invece dovrete cercare online. Lo stesso dicasi per la sua Les Paul signature, una ‘54 reissue in finitura Oxblood, che compare sulla copertina di Blow by Blow. In questo video del ‘74, Beck ci racconta di questa Les Paul e mostra i pedali che utilizzava all’epoca. Come detto poi, ha utilizzato anche delle Jackson Soloist negli anni Ottanta.

Jackson SLXDX Soloist Satin Black

Jackson SLXDX Soloist Satin Black

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Per un intervento più low budget, potreste solo modificare i pickup della chitarra che già avete per avvicinarvi al suono di Beck. A tale scopo, potete acquistare i due set di pickup signature prodotti da Seymour Duncan e da Cream T:

Seymour Duncan TB-4 WH

Seymour Duncan TB-4 WH

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Seymour Duncan TB-4 BLK

Seymour Duncan TB-4 BLK

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Cream-T Bolero Jeff Beck Set

Cream-T Bolero Jeff Beck Set

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Per l’amplificazione Jeff ha utilizzato i classici Vox AC30, il Marshall DSL100HR e il meraviglioso Magnatone Super Fifty-Nine M-80. Nel suo caso aveva un’estetica particolare e la scritta BECKTONE.

Vox AC30 C2

Vox AC30 C2

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(140)
Marshall DSL100HR

Marshall DSL100HR

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Per gli effetti, invece, potete sbizzarrirvi con il J. Rockett Audio Designs The Jeff Archer, con il Fulltone Octafuzz o con i British Pedal Company Vintage Series MKI e OC75 Fuzz, repliche del classico Tone Bender:

J. Rockett Audio Designs The Jeff Archer

J. Rockett Audio Designs The Jeff Archer

Valutazione dei clienti:
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Fulltone Octafuzz OF-2

Fulltone Octafuzz OF-2

Valutazione dei clienti:
(46)
British Pedal Company Vintage Series MKI Fuzz

British Pedal Company Vintage Series MKI Fuzz

Valutazione dei clienti:
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British Pedal Company Vintage Series OC75 Fuzz

British Pedal Company Vintage Series OC75 Fuzz

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(1)

Speriamo che questo nostro ricordo di Jeff possa portare tanti amanti della sua musica a riascoltare i suoi brani e tantissimi nuovi appassionati a scoprire i suoi grandi dischi. Se volete continuare a leggere qualcosa su Jeff, vi consigliamo questo articolo, scritto per ricordarlo dopo la sua recente scomparsa. “Il chitarrista dei chitarristi”, in fondo, è ancora qui tra noi e la sua musica vibra ancora in milioni di chitarre del mondo.

Jeff Beck dal vivo nel 2014, © Takahiro Kyono, CC BY 2.0

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Riccardo Yuri Carlucci
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