Non è stata semplice la vita per Randy Bachman e Jeff Healey. Entrambi hanno dovuto affrontare, seppur in tempi e modi diversi, le asperità dell’esistenza e gli alti e bassi provocati dalla notorietà. Tuttavia c’è qualcosa che li ha sempre tenuti a galla nei momenti più difficili: l’amore e la passione per la chitarra. Bastava un riff, l’improvvisazione di un fraseggio e il cielo tornava sereno, spazzando via le nubi dell’angoscia e della malinconia. Riviviamo per “Crossroads”, la serie speciale e unica di Planet Guitar, i momenti in cui la loro musica si è incrociata e analizziamo le fasi salienti dell’incredibile carriera dell’autore di See the Light.

© ZUMA Press, Inc. / UPI Alamy Foto Stock

Amici fino all’ultima nota

Dal Canada con furore

“Jeff e io eravamo grandi amici. Ogni volta che si esibiva a Victoria, Vancouver, persino a Londra, lo chiamavo, mi invitava e mi recavo a vedere il suo concerto. Andavo a cena con lui e la band. Salivo sul palco e suonavo insieme a loro”. Randy Bachman, estratto da intervista su jeffhealey.com

Suonare con i giovani dà uno sprint, offre qualcosa di diverso. Nella musica si impara moltissimo insegnando, è una sorta di rigenerazione, che fa rimanere ragazzini. Ne sa qualcosa Randy Bachman, classe 1943, grazie alle sue collaborazioni con Jeff Healey, nato nel 1966 e suo conterraneo, canadese, come tanti altri illustri artisti del calibro di Neil Young, Joni Mitchell e Robbie Robertson.

Con il Canada (e il rock blues) nel cuore, il leader dei BTO e il genio della Strato hanno spesso incrociato le loro chitarre, lasciando ricordi memorabili on stage e in studio.

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Jeff Healey e Randy Bachman, la musica come una felice danza dell’anima

Esiste almeno una cosa che lega e accomuna ogni essere umano all’altro. È quel suono primordiale che risiede dentro di noi, quel ritmo scandito dal battito del cuore che è anche il ritmo dell’universo, con lampi e impulsi come su uno spartito. While My Guitar Gently Weeps,in questa toccante versione catturata nel 2007 a Londra all’Islington Academy, rappresenta qualcosa di profondo, una danza delle anime belle che non vogliono arrendersi alle asperità della vita.

Fino all’ultimo Jeff Healey non ha mollato, con forza e coraggio, grazie al potere della sua chitarra e ha trovato sulla strada un grande amico, Randy Bachman, che ha voluto ricordarlo spesso negli anni successivi alla tragica dipartita del 2008, arrivando a pubblicare un album in cui figura un brano speciale, ove i due duettano come se nulla fosse accaduto, perché il mondo della musica è eterno…

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“Confessarsi al diavolo”

Vi sono tante interpretazioni sul significato del termine “musica del diavolo”: in prim’ordine suonare il blues era ritenuto, da predicatori e benpensanti, un peccato. Inoltre la musica blues è stata associata al diavolo quando ha preso il suo nome. Il genere deriva infatti dall’espressione inglese “the Blue Devils”, tradotto in “i diavoli blu”. La locuzione veniva usata per descrivere l’astinenza da alcol in cui si hanno pesanti allucinazioni visive.

E il demonio viene spesso citato dai più importanti autori, da Robert Johnson a Skip James e Memphis Minnie,fino a Sunnyland Slim e John Lee Hooker, per arrivare ai Rolling Stones.

Quando Bachman nel 2015 decide di tornare alle radici, la sua rinascita avviene con un disco di blues, un accorato tributo a quella musica così potente, affascinante e misteriosa. Heavy Blues è ricco di pregiati ospiti, tra cui l’indimenticato Healey. L’ex membro dei Guess Who scrive una canzone molto intensa dal titolo inequivocabile, Confessin’ to the Devil, pensando all’amico scomparso e rifacendosi a un pezzo di uno dei giganti delle dodici battute.

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Il retroscena della canzone 

“Ho registrato del materiale dal vivo con Jeff alla Massey Hall di Toronto e volevo inserirlo in un album. Ma, purtroppo, per una serie di tanti motivi, non sono mai riuscito a farlo. Poi lui si è ammalato gravemente di cancro e ci ha lasciato. Con il permesso della moglie Cristie ho deciso di commemorarlo prendendo alcuni dei suoi assoli di chitarra registrati e scrivendoci sopra una canzone”.

Randy Bachman, estratto da intervista su jeffhealey.com

Nasce così Confessin’ to the Devil, caratterizzata da un potente groove, in stile New Orleans e con la batteria di Dale Anne Brendan che spinge la canzone in avanti. Randy ci mette l’anima, con un cantato sentito. E poi vi è la forte emozione di ascoltare i guitar solo di Jeff, estrapolati da Early in the Morning di B.B.King, brano che i due avevano eseguito live alla Massey Hall. Un’operazione che poteva comportare grossi rischi, e invece fa venire il groppo in gola perchè Jeff sembra lì, impegnato a muoversi come un ossesso per far fuoriuscire le sue fantastiche note dalla Stratocaster.

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Jeff Healey e Randy Bachman tra blues, rock e chitarre. Cronaca di una passione comune

I Beatles, George Harrison, il british blues e quello di Chicago sono le importanti influenze comuni, che hanno condotto i due artisti a esibirsi insieme live anche per una pirotecnica versione di Hoochie Coochie Man, pubblicata in uno dei tanti, bellissimi, album postumi, Songs from the Road (2009).

Il rock e il blues rappresentano la musica dell’anima e personaggi come Jimi Hendrix, The Doors e The Allman Brothers Band, capaci di fare da ponte tra i due generi aggiungendo un pizzico di psichedelia, sono per loro caratteri imprescindibili.

Inoltre, la costruzione di trame melodiche attraverso la chitarra, la deificazione di questo strumento così importante sin dalle prime tracce acustiche di Son House, Robert Johnson, Blind Lemon Jefferson e Bukka White sono altre comunanze tra due spiriti liberi, che hanno abbracciato l’ampia gamma di esperienze umane e musicali cercando sempre di dare qualcosa di originale. E a proposito di originale, nel panorama chitarristico non esiste storia più straordinaria e unica di quella di Jeff Healey. Approfondiamone con dovizia le fasi salienti.

La Jeff Healey Band, 1990 © MediaPunch Inc / Alamy Stock Photo

Intensa e colorata di avventure: l’incredibile storia di Jeff Healey

La musica e la chitarra come seconda pelle 

Una storia incredibile fin dall’inizio. 

Norman Jeffrey Healey nasce a Toronto, in Canada, il 25 marzo 1966, e viene subito adottato da una famiglia residente nel west end della città. Il padre, pompiere, è tanto fiero del piccolino, felice di aver allargato la famiglia, ma deve fare subito i conti con una disgrazia: Jeff non ha ancora otto mesi quando gli viene diagnosticato il retinoblastoma, un tumore maligno che colpisce gli occhi e purtroppo ciò gli causa la perdita della vista. 

A volte, però, alcune tragedie danno ancora più forza e voglia di vivere. Il bambino acquisisce altre sensibilità, è molto perspicace e curioso e a soli tre anni comincia a suonare la chitarra con quello stile unico, tenendola piatta sulle ginocchia. Adora la musica, inizia a collezionare un numero spropositato di dischi (arriverà a possedere trentamila “antichi” 78 giri!), da cui impara a orecchio tutti i trucchi del mestiere. Il tempo scorre velocemente, ormai è un enfant prodige nel circuito nazionale, appare in TV e conduce uno show di matrice jazz e blues alla radio.

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L’epopea della Jeff Healey Band: dalla gavetta al successo internazionale

Un power trio sensazionale ottiene i primi meritati riscontri e pubblica lo straordinario disco d’esordio

Healey si esibisce con impeto smisurato nei club della sua città, dove avviene l’incontro con il batterista Tom Stephen nell’84 e forma la Jeff Healey Band, che diventerà un trio nel gennaio successivo grazie all’arrivo del bassista Joe Rockman.

I ragazzi pestano duro, pubblico e stampa locale cominciano a parlare in modo entusiastico del gruppo che fonde blues, rock e jazz in una maniera speciale come speciale in tutti i sensi risulta il suo frontman. Si narra che durante un’epica performance alla Albert’s Hall di Toronto, Stevie Ray Vaughan e il Maestro della Telecaster Albert Collins siano presenti tra la folla e si entusiasmino del personaggio, improvvisando in seguito pure una jam session con lui.

Con tale incoronazione arriva presto un contratto discografico e a settembre 1988 vede la luce See the Light, effervescente esordio del “combo”, equilibrato mix di canzoni autografe, cover storiche e brani di compositori famosi studiati ad hoc per tale progetto. L’opener Confidence Man e il secondo singolo dell’LP, Angel Eyes, scritte dal grande autore e musicista americano John Hiatt rappresentano perfettamente quest’ultimo aspetto, dando una connotazione leggermente più soft e radio friendly all’opera, per il resto ribollente di folgorante rock blues. 

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La bellezza dei brani autografi di See the Light

La Fender Squier Stratocaster di Healey comunque è immanente anche in queste due tracce e tocca livelli apocalittici nelle autografe My Little Girl, Don’t Let Your Chance Go By, I Need To Be Loved e That’s What They Say, una serie di straripanti “instant classics”, momenti memorabili, laddove il leader canadese esprime nelle liriche quanto innamoramento, romanticismo e bisogno di essere amati siano la parte più importante della vita. Dolce e potente il buon Jeff, che, con la sua innovativa ricerca di un equilibrio tra le dodici battute tradizionali e la vena maggiormente hard ereditata da Jimi Hendrix e Jimmy Page, riesce a creare un tracciato moderno del genere, lasciando a bocca aperta anche B.B. King, letteralmente conquistato già dalla prima volta in cui assiste a una performance di questo ragazzo assatanato.

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Le cover infuocate presenti nell’album

Dall’ammaliante, ipnotico strumentale originale Nice Problem to Have al classico dei classici Hideaway di Freddie King, reso potente e trascinante: in questi pezzi emerge la nuova direzione per i seguaci del blues, che la Jeff Healey Band imprime sul finire degli Ottanta. É un momento nel quale quel tipo di musica sembra aver perso, come prima della svolta “british” a metà anni Sessanta, l’impulso della tradizione e delle radici e sta tirando a campare. Si vive solo dei lampi geniali proprio di Vaughan, o di Robert Cray, mentre altri mostri sacri scendono a patti con il pop, non sempre riuscendo a stare in equilibrio sul filo sottile della qualità, precipitando nella banalità.

Il rifacimento della storica Blue Jean Blues degli ZZ Top è naturalmente esplosivo: non è un discorso di velocità o ritmo, qui si tratta di essersi perfettamente insinuati nelle pieghe spirituali di questo gioiello e averne tirato fuori l’anima, con quella chitarra sofferta, il migliore modo per il giovane canadese di comunicare tormento, disperazione e, nonostante tutto, un barlume di fiducia, sia esso sogno o illusione. 

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L’irresistibile fascino della title track

“Pensare significa oltrepassare” dice il filosofo della speranza Ernst Bloch. E questo è l’intento che si pone Jeff Healeyin See the Light: offrire in musica e parole lo spunto per mettere in discussione tabù e mantra e così oltrepassare i propri limiti, dirigere la nave del pensiero lontano, in modo radicale, approdando in un porto dove la fisicità del vedere non sia necessaria, e la luce si possa cogliere da dentro, dal profondo del cuore.

“Come on, we’ll get from this place, now. Look out, yeah. Can you see the light? Can you see the light of love shinin’ from my heart?”, canta con trasporto il chitarrista declinando la sofferenza del blues in sonorità moderne, senza scordarne però le origini, con assoli pirotecnici, ma mai fini a se stessi, vissuti nell’intimo e riflesso di quanto provato da tante deprivazioni. Buddy Guy, Albert Collinse Jimi Hendrixriecheggiano mentre la band non perde un colpo, robusta, rutilante e ben rodata, in questo tour de force di quattro minuti. Jeff suona in modo affamato e col coltello tra i denti, e dopo il suo passaggio niente può essere come prima.

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Il successo irrefrenabile di See the Light e gli anni d’oro della band 

In poco tempo la Jeff Healey Band si guadagna un posto di spicco nel panorama mondiale delle sette note, esibendosi in stadi e palazzetti sold out, arrivando ad eseguire i suoi brani pure di fronte a numerosi Primi Ministri, al Presidente degli Stati Uniti e alla Regina d’Inghilterra. Tutto ciò sempre mantenendo quell’umiltà che contraddistingue il suo capo carismatico, a suo agio anche nella parte di attore nell’indimenticabile Road House con Patrick Swayze e ispirato trascinatore di altri due lavori memorabili del trio, Hell to Pay (1990) e Cover to Cover (1995). Get Me Some (2000) è il canto del cigno (e l’anello più debole) del gruppo. Jeff si prende spazio per alcuni progetti personali sorprendenti e inaspettati. 

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L’inizio di nuovi, interessanti progetti prima del triste epilogo

“La mia arte contiene molte cose, all’interno vi sono tanti collegamenti a diversi stili musicali, tutti emozionali e spontanei. Dal vivo, poi, mi approccio alle cose come farebbe un amante del jazz: c’è una struttura, ma tutti gli assoli sono improvvisati e c’è notevole libertà al suo interno.”

I vecchi amori non si scordano mai. All’alba del nuovo secolo Jeff si concentra sul jazz per dare sfogo alle sue immense doti, cimentandosi persino alla tromba. Con il suo nuovo ensemble, i Jazz Wizards, si esibisce dal vivo e pubblica una manciata di album interessanti, fra cui Adventures in Jazzland, dato alle stampe nel 2004.

Mess of Blues è, infine, il disco solista indimenticabile sia per le circostanze, in quanto viene pubblicato pochi giorni dopo la morte, sia per l’ispirata tracklist, costruita principalmente con canzoni dal vivo miscelate con alcune perle registrate in studio.

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Jeff Healey si ricorda inoltre per lo spiccato sense of humour e l’instancabile amore per la vita, corredati da una forza interiore che non lo mollerà mai, nemmeno nei momenti più bui e che, insieme alla sua profonda passione, gli permette fin dall’infanzia di incamminarsi in quel percorso di riscatto e redenzione, a dispetto di ogni avversità vissuta. Ci abbandona il 2 marzo 2008, quando sta per compiere 42 anni, in seguito a una serie di tumori che lo colpiscono alle gambe e ai polmoni, lasciando una tristezza e un vuoto incolmabili. Rimangono le sue imprese alla chitarra, potente come un uragano, quella voce espressiva, quella passione e curiosità che gli hanno dato la libertà, una libertà che solo la musica gli poteva donare. 

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Le chitarre di Jeff e il meraviglioso rapporto d’amicizia con tanti straordinari artisti

Non sono un uomo da strumentazione, non lo sono mai stato. Datemi qualcosa con sei corde, tenetelo intonato e assicuratevi che funzioni!”. 

Nel vocabolario di casa Healey la parola ‘resa’ non è mai  esistita e anche nel culto delle chitarre, nella scelta delle preferite, Jeff ha sempre gradito andare controcorrente, accettando sfide incentrate sulla sua capacità di suonare piuttosto che citare un marchio in grado di fare la differenza per lui.

Detto questo è impossibile non nominare la compagna di mille avventure, la Fender Squier Stratocaster nera “made in Japan” abbandonata solo a lungo andare, dopo numerosi “lanci”e salti sopra con tutto il peso del corpo, durante i suoi show spettacolari.

Squier Mini Strat V2 BK IL

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L’estroso di Toronto possedeva anche una fantastica double neck Jackson, ossiaa doppio manico, con palette unite, “Siamese”,spesso usata sul palco prima di aggiungere un secondo chitarrista al gruppo in tour.

In seguito Jeff ha avuto una Les Paul e alcune Strato personalizzate con tre pickup humbucking Evans (e più tardi Seymour Duncan SH-5) e un cablaggio piuttosto selvaggio che gli permetteva di collegare in bobina i singoli pickup uno alla volta.

Epiphone Les Paul Custom Ebony w/Case

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Infine, per gli spettacoli con i Jazz Wizards utilizzava una Gibson L12 degli anni 1940, fatta passare direttamente in un Fender Pro Junior e semplicemente con i due controlli di base, volume e tono.

Un piccolo grande genio, appassionato di sei corde particolari e, soprattutto, del sound originale che si poteva ricavare da ognuna di esse. 

Tanti artisti famosi sono rimasti colpiti e hanno suonato insieme a Jeff Healey. Giganti del jazz, del blues e del rock & roll del calibro di Chris Barber, Les Paul, John Mayalle Jerry Lee Lewis, chitarristi illustri come Jimmy Rogers, Buddy Guy, Keith Richards, Eric Clapton e Mark Knopfler, senza dimenticare i già menzionati SRV, Albert Collins e B.B. King. 

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Rimane indimenticabile per il nostro Belpaese proprio un’esibizione tra quest’ultimo, Jeff e un artista italiano di profonda ispirazione rock blues. Momenti magici che hanno messo in luce come il maestro King fosse il loro mentore ed entrambi avessero attinto dalle stesse radici pur se distanti migliaia e migliaia di chilometri: dal freddo, ma stimolante Canada, alla fervida e ribollente Napoli.

Jeff Healey ed Edoardo Bennato… un altro intrigante incrocio ci porterà a un nuovo episodio di “Crossroads”, la serie unica e speciale di Planet Guitar!

Stay tuned

To be continued…

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Alessandro Vailati