Classe 1947, Carlos Santana ha alle spalle quasi sei decenni di carriera musicale. Per celebrare il suo settantasettesimo compleanno ripercorriamo alcuni passaggi cruciali del primo Santana, tra blues, jazz, ritmi africani, musica latina e molto altro…

© Gijsbert Hanekroot / Alamy Foto Stock

Carlos Santana, da Tijuana alla California

Quarto di sette figli, padre violinista mariachi e madre dalla forte personalità, Carlos Santana si appassiona presto alla musica. I tentativi al violino all’inizio lo demoralizzano, ma quando verso gli undici anni passa alla chitarra le cose iniziano decisamente a cambiare.

Qualche anno dopo la sua famiglia si trasferisce da Tijuana, in Messico, a San Francisco. Un passaggio decisivo nella vita del giovane Carlos, che come molti grandi chitarristi dell’epoca impara da autodidatta ascoltando i grandi bluesman: John Lee Hooker, Otis Rush, B.B. King su tutti.

Dopo il diploma inizia a fare lavori saltuari per portare qualche soldo a casa. Il resto del tempo lo dedica a suonare: è determinato a imparare il più possibile e sogna di trasformare quella passione in un mestiere. Ma per farlo serve inserirsi negli ambienti giusti.

Bill Graham e il Fillmore

Carlos impara in fretta a districarsi nell’effervescente scena musicale di San Francisco. In particolare, quelli sono gli anni dell’ascesa di un luogo destinato a diventare leggendario: il Fillmore. A gestirlo è un uomo cruciale per il destino di molti musicisti: il promoter Bill Graham.

Santana ci va tutte le volte che può per ascoltare e assistere ai concerti di grandi nomi del periodo, come Mike Bloomfield e la Paul Butterfield Blues Band, finché non riesce a entrare in contatto e stabilire un rapporto di stima reciproca con lo stesso Graham. 

Così, quando si presenta l’occasione propizia, Bill decide di affidare una serata alla band che Carlos, nel frattempo, ha messo su insieme a un gruppo di amici e che porta il suo nome. 

Le sue influenze musicali intanto si sono estese al Peter Green di A Hard Road con John Mayall and the Bluesbreakers, al jazz pieno di contaminazioni di Gábor Szabó, ma soprattutto ai ritmi latini di Tito Puente e Chico Hamilton. Provare a mescolare tutto questo materiale sarebbe diventata la sfida numero uno per Carlos e compagni, che da quel momento diventeranno ospiti fissi del Fillmore.

Ritmo e contaminazioni

L’idea di mescolare altre influenze al blues, ad esempio ritmi africani e uso delle congas, non era del tutto nuova all’epoca. Ma è l’intensità con cui i Santana, nati ufficialmente nel luglio 1967, la portano avanti a fare la differenza.

C’è però un altro ingrediente spesso sottovalutato che dà corpo a questo esperimento: in quel periodo, infatti, Carlos inizia ad ascoltare Grant Green, Kenny Burrell e Wes Montgomery, proprio come farà qualche tempo dopo un altro chitarrista straordinario come Stevie Ray Vaughan, confermando il detto secondo cui i migliori chitarristi hanno molti eroi.

Da qui trova il ponte ideale per avvicinarsi ancora di più al jazz. Scopre A Love Supreme di John Coltrane e comincia a sentire che oltre alle scale blues esistono altre note che danno colori diversi alle melodie. Si lancia così a esplorare meglio la struttura interna dei brani e nuove scale a cui vorrebbe attingere per dare più espressività al suo modo di suonare.

Jazz e improvvisazione

Il passo successivo, il Santo Graal di ogni musicista, è sperimentare l’arte dell’improvvisazione, all’inizio anche solo su pochi accordi. Carlos segue un approccio solo apparentemente semplice: trarre continuamente ispirazione dalla musica che ascolta, prendere un’idea musicale e iniziare a elaborarla portandola avanti come se la stesse discutendo tra sé e sé. Poi farla salire di intensità e tensione fino a sentire quando è il momento di riportarla giù. 

Una questione di energia, insomma, più che di scale e note. Senza mai rinunciare a tre elementi imprescindibili: tempo, mood e groove, infondendo ogni volta nuova vita negli assoli e nelle progressioni di accordi, senza mai suonare ogni pezzo alla stessa maniera. Ma non solo… Perché a quel punto per Carlos si tratta di cercare la propria vera identità.

Carlos Santana e la ricerca del proprio suono

«Non potevo essere un altro Lightnin Hopkins, Gábor Szabó o Mike Bloomfield. Il mondo aveva già loro. Dovevo trovare il mio suono, la mia integrità, la mia coerenza. Dovevo essere Carlos Santana e nessuno mi avrebbe scambiato per qualcun altro», ha scritto nella sua biografia Suono universale.

Questa è stata sin dall’inizio l’attitudine con cui il chitarrista messicano ha cercato di esprimere il proprio mondo musicale. Prima, ha cercato di capire dove e da che cosa attingevano i suoi maestri. La domanda chiave, come lui stesso ha detto, è: Chi sono i tuoi ispiratori? Chi c’è nella tua collezione di dischi? Chi ti fa scoccare la scintilla quando lo ascolti? Perché «quello che vuoi diventare determina quello che fai e quello che fai determina quello che diventerai». 

Poi, si tratta di trovare la convinzione sufficiente per far risaltare le note, entrarci dentro, proprio come fa B.B. King. 

Infine, individuare la formula giusta, che nel caso di Carlos è stata quella di fondere e mescolare appunto B.B. King e Tito Puente, blues e musica latina. Questo sarebbe diventato il marchio di fabbrica dei Santana: creare ponti fra diversi generi musicali, miscelando rumba, blues, latin rock, ritmi africani, salsa e boogaloo.

Prima ancora di debuttare a livello discografico, la band è attesa a un appuntamento storico. Benché sia conosciuto perlopiù a San Francisco e dintorni, grazie all’efficace opera di intermediazione di Graham il sestetto viene scritturato per il festival di Woodstock. 

Woodstock e il serpente elettrico

Quando associo il nome di Santana a quello del festival che si tenne nell’agosto 1969 e che segnò un intero periodo mi viene sempre in mente un’immagine che lo stesso Carlos ha descritto più volte, anche nel recente docufilm omonimo uscito nel 2023.

La sua esibizione fu infatti segnata da momenti di confusione, spavento ed euforia insieme. Chiamato a salire sul palco prima del previsto, Carlos era ancora sotto il pesante effetto di un acido. Il risultato fu che il manico della sua SG si trasformò in una specie di serpente elettrico. E le smorfie che si vedono durante l’esecuzione esprimono, a detta di Santana stesso, più la sua fatica nel cercare di domarlo che l’intensità delle note che intendeva far uscire dalla chitarra.

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In ogni caso, da quel giorno il nome Santana sarebbe entrato nel firmamento del rock, anche grazie al film uscito nelle sale cinematografiche che fece conoscere a un pubblico ancora più vasto la grande esibizione della band.

I primi album di Carlos Santana

Evil Ways, Jingo, Soul Sacrifice, Black Magic Woman, Oye como va, Gipsy Queen, Hope you’re feeling better. E ancora Europa, Samba Pa TiNei primi anni i Santana inanellano una serie di successi e, dopo l’album di debutto non troppo fortunato sul piano delle vendite, il secondo si rivela un successo oltre che un capolavoro assoluto: siamo nel 1970 e Abraxas esprime un perfetto lavoro di gruppo.

Il titolo è tratto da un romanzo di Hermann Hesse, Demian, in cui si legge: «L’uccello lotta per uscire dall’uovo. L’uovo è il mondo. Per nascere devi distruggere un mondo. L’uccello vola a Dio. Il nome del Dio è Abraxas».

Abraxas, che in alcune tradizioni antiche rappresenta l’elemento di mediazione fra l’uomo e la divinità, qui è simbolo di nascita e di volo celeste e annuncia l’evoluzione futura dei Santana, a cominciare da Santana III del 1971.

L’impronta jazz e l’atmosfera spirituale si fanno ancora più marcate nel successivo lavoro Caravanserrai del 1972, riuscita fusione di rock e jazz in cui compare uno dei brani preferiti dallo stesso Carlos: Every Step of the Way.

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La lezione di Miles Davis 

La scoperta del jazz e della musica modale segna un ulteriore passaggio decisivo nell’evoluzione di Santana. Qui sono alcuni album di Miles Davis a indicare la rotta: Kind of Blue, In a Silent Way, Bitches Brew, Sketches of Spain. È quella che Carlos chiama «musica visiva», un linguaggio di luce intriso di magia e viaggi onirici.

È interessante notare che, sulla scia di Jimi Hendrix, è proprio Miles a suggerire in quel periodo al chitarrista messicano di usare il pedale wah-wah, ma non solo. Più lo ascolta, più Carlos comprende che la direzione indicata da Davis è quella giusta: suonare con dolcezza e chiarezza, essere preciso e conciso, andare al cuore di quello che si vuole esprimere senza usare troppe note. 

Al tempo stesso, avere la consapevolezza di sapere cosa si è in grado di suonare al meglio e cosa no, verso una musica essenziale che sappia anche essere un nutrimento per l’anima e parte integrante del cammino spirituale.

In questa direzione muovono i suoi lavori successivi come Love, Devotion and Surrender con John McLaughlin, introdotto proprio da un pezzo di Coltrane: il movimento iniziale di A Love Supreme. 

È il 1973 e l’anno successivo Carlos, stanco dell’atteggiamento di alcuni membri del gruppo, diventa il leader unico dei Santana. Un ruolo che ricopre tuttora e che lo ha portato nei decenni ad attraversare alti e bassi, conoscere periodi bui e ottenere successi straordinari, come il pluripremiato album Supernatural del 1999 alle soglie del nuovo millennio.

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Il blues, l’unico vero guaritore

Dieci anni prima, Carlos aveva inciso e prodotto un brano insieme a uno dei suoi primi maestri: The Healer, traccia che diventa anche il titolo dell’album di John Lee Hooker, intriso di altre prestigiose collaborazioni.

Perché, nonostante Carlos Santana abbia continuato a imparare e suonare cose nuove facendo di questa attitudine il faro che l’ha sempre guidato nel suo lungo viaggio artistico, il blues è rimasta la cornice musicale perfetta per esprimere le sue emozioni più profonde e, soprattutto, l’unico vero guaritore. «It healed me, it can heal you..». 

Buon compleanno Carlos!

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Alberto Rezzi