David Gilmour e Jeff Beck rappresentano un pezzo di storia della musica e della chitarra negli ultimi sessant’anni. Pur conoscendosi dagli inizi di carriera, vivono il loro primo incrocio pubblico solo nel 2009, alla mitica Royal Albert Hall. Sono due artisti di grande spessore tecnico e umano, sempre in prima fila, ognuno a suo modo, per provare a migliorare il mondo con la loro arte e generosità. La rubrica “Crossroads” di Planet Guitar è territorio perfetto per raccontare la storia della loro reciproca stima e tratteggiare i momenti salienti del chitarrista e songwriter dei Pink Floyd, impegnato pure in una florida attività solistica.

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Un diluvio di emozioni alla Royal Albert Hall

Jeff Beck ospita David Gilmour nel tempio della musica

Fin dagli inizi, nei mitici anni Sessanta, Jeff Beck e David Gilmour respirano la medesima aria frizzante di rivoluzione e cambiamento avvenuta nella musica inglese, dall’avvento del british blues alla ribalta delle sonorità psichedeliche. Beck con gli Yardbirds, poi con il suo “Group” e infine da solista, Gilmour insieme ai Pink Floyd e in alcune occasioni pure lui “in proprio”, disegnano traiettorie nuove nella storia della chitarra.

Il primo stupisce per la sua tecnica stellare e una versatilità a trecentosessanta gradi, il secondo per il suo stile fin da subito riconoscibile, con eccellente padronanza strumentale. Entrambi sono dotati di ardente carica emozionale, fertile vena compositiva, sensazionale senso ritmico e proverbiale raffinatezza comunicativa, pur se quest’ultima concepita in maniera diversa, ma sempre nei crismi della massima espressività. Così è veramente un’emozione incredibile ascoltarli finalmente insieme su uno stesso palco dopo tanto tempo e numerose, indimenticabili avventure vissute nel nome del rock. L’occasione è un concerto di Jeff a Londra alla mitica Royal Albert Hall, il 4 luglio 2009, ove David si unisce al suo compare nei bis.

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Storia di una canzone scritta più di cent’anni fa: da Hubert Parry agli ELP, fino all’accoppiata David Gilmour/Jeff Beck

Jerusalem viene composta da Sir Hubert Parry nel 1916. È stata scritta per musicare una poesia di un secolo prima di William Blake, And did those feet in ancient time (1804). Al giorno d’oggi il brano è celebre come inno, con esecuzioni corali tradizionali e nuove interpretazioni da parte di artisti di musica popolare. Si ricordano, fra le tante, la palpitante versione progressive di Emerson, Lake & Palmer nel ’73, con l’uso del primo sintetizzatore polifonico, il Moog Apollo e quella colorata di sfumature folk e new wave dei Simple Minds (1989). La canzone ha avuto un grande impatto culturale in Gran Bretagna e ogni anno viene cantata da un pubblico di migliaia di persone alla fine della Last Night of the Proms, alla Royal Albert Hall.

E qui si chiude il cerchio: quel geniaccio di Jeff non poteva che pensare di interpretarla proprio lì, nel tempio della musica, affiancato dalla sua incredibile band di allora. Jerusalem diventa una cavalcata strumentale verso territori sconosciuti e ammalianti, grazie a una sezione ritmica composta da due giganti del calibro di Vinnie Colaiuta e Tal Wilkenfeld, alle tastiere sempre innovative di Jason Rebello e per merito, ultimo, ma non meno importante, di Gilmour. La sua ammirazione per Beck è totale e ricambia l’invito ad esibirsi con una performance da brividi, in cui le due Fender camminano insieme, si toccano e poi si lasciano per ricongiungersi. Un rito magico tra due strumenti divini, la Black e la White Strat: il Bianco e il Nero, il potere degli opposti che si fondono e creano bellezza. Ma l’incanto non finisce qui, la serata regala ancora una sorpresa…

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David Gilmour e Jeff Beck: un’affinità e un’empatia che riportano agli esordi

Non si va in estasi solo per la leggendaria Jerusalem quella calda sera di luglio rinfrescata dai tocchi celestiali dei due guitar hero. Un altro encore comincia con il tonitruante intro di Hammerhead (brano pubblicato l’anno successivo nell’evocativo Emotion & Commotion) e prosegue grazie a una ridanciana, quasi sguaiata versione di Hi Ho Silver Lining, debutto solista di Beck ormai nel lontano ’67. Una canzone perfetta per terminare una serata inaspettata e carica di richiami al passato, segnatamente ripresi e riproposti con una veste diversa, e un’apertura a nuovi orizzonti. E se esiste un personaggio che si può ricondurre a tale mentalità aperta, anticonformista, sempre pronta ad attingere dalla tradizione per sviluppare insolite sonorità futuristiche, quello è l’istrionico Jan Hammer.

Il mitico compositore nato a Praga, guarda caso, condivide parte del suo percorso con Beck, soprattutto, ma anche con Gilmour. Eh, ecco affiorare i nostri tanto amati “Crossroads”! Hammer ci regala una piacevole sorpresa: per merito di un divertente video di uno dei suoi singoli più famosi, Too Much to Lose (1989), riesce a farci vedere insieme i nostri due personaggi ancor prima del magico incontro descritto. Pure Ringo Starr è della partita: Jan comincia alla batteria per poi venire spassosamente “destituito” dall’ex beatle. La stessa cosa capita con David e Jeff, che si appropriano rispettivamente di basso e chitarra relegando l’artista ceco alla tastiera, suo noto cavallo di battaglia. 

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Blues e rock and roll: le radici in comune tra David Gilmour e Jeff Beck

Modernità: se c’è una parola che accomuna Jeff Beck e David Gilmour è sicuramente questa. Attingono entrambi dalle radici, però effettuano un’incredibile e innovativa opera di elaborazione tenendo conto di quanto avviene nel mondo attuale, sempre attenti anche per quanto riguarda le iniziative benefiche. Il contenuto assimilato emana una luce diversa, intrigante, mediante il loro tocco unico, sia si tratti di un assolo, oppure di una melodia.

Il blues di B.B. King, i dischi di Elvis Presley e Gene Vincent con all’interno fior di chitarristi del calibro di James Burton e Clifton Gallup, gli Shadows di Hank Marvin sono tutte influenze condivise, come Jimi Hendrix, Roy Buchanan e i Beatles. Sono entrambi appassionati di musica a tutto tondo e il chitarrista dei Pink Floyd, in particolare, rimane irretito dai virtuosismi mai fini a se stessi di Lead Belly, dalle sonorità ad ampio spettro dei Beach Boys e dalle armonie vocali degli Everly Brothers. Nel corso degli anni la stima reciproca sfocia in una bella amicizia, rafforzata, come visto, da alcuni episodi intensi e divertenti vissuti insieme.

David non manca mai di rimarcare nelle interviste quanto sia stato importante Jeff per il suo stile chitarristico. Sa di non essere veloce come il suo compagno d’avventure, ma da lui ha imparato a produrre un suono unico e particolare, che lo rende immediatamente riconoscibile. In virtù di quanto raccontato è difficile non commuoversi leggendo le sue parole scritte il giorno dell’improvvisa scomparsa di Beck: “Sono devastato dalla notizia della morte del mio amico ed eroe, la cui musica ha entusiasmato e ispirato me e innumerevoli altri per così tanti anni”.

Pensare adesso a tutte le connessioni avvenute nella loro lunga carriera fa riflettere su quanto a volte incida il destino, una scelta, nella storia della musica. Nick Mason ha infatti scritto nella sua autobiografia, A Personal History of Pink Floyd, che quando Syd Barrett lasciò il gruppo nel 1967 volevano reclutare Jeff ma nessuno di loro ebbe il coraggio di chiederglielo. Questa circostanza viene confermata anche da Richard Wright.

E molto tempo dopo proprio Beck, con un’onestà incredibile, ammette che Gilmour era quello giusto, lui non sarebbe durato all’interno di quella band…Arriva così il momento di ripercorrere la storia di chi, arrivando nel frangente di maggior crisi di Barrett, riuscirà a supplire alla sua dissipata genialità contribuendo a scrivere alcune delle più belle pagine dell’enciclopedia del rock.

David Gilmour on stage con i Pink Floyd nei primi anni Settanta ©
Pictorial Press Ltd / Alamy Foto Stock

I primi anni di carriera e l’inizio dell’avventura nei Pink Floyd 

La predilezione per la musica e il debutto nel mondo dello spettacolo

David Gilmour nasce a Cambridge, in Inghilterra, il 6 marzo 1946. Il padre Douglas è un docente di zoologia all’Università di quella città, mentre la madre, Sylvia, dopo un passato di insegnante diventa redattrice cinematografica per la BBC. Il sua interesse per la musica è incoraggiato dai genitori: Bill Haley, Elvis Presley, Screamin’ Jay Hawkins, Pete Seeger e gli Everly Brothers sono i primi autori che imperversano nel giradischi di casa, mentre un ragazzino di neanche undici anni si cimenta con la chitarra prestatagli da un vicino.

A scuola e poi al collegio delle arti approfondisce la conoscenza di Syd Barrett e Roger Waters, e intanto sviluppa la passione per il blues unendosi al gruppo Jokers Wild. La frequentazione con Barrett prosegue tra varie avventure anche nel 1965, quando questi a Londra forma i Pink Floyd proprio insieme a Waters, con l’aggiunta di Wright e Mason. Ma il loro cammino non è ancora destinato a incrociarsi. A metà del 1967 Gilmour si reca in Francia con Rick Wills e Willie Wilson, entrambi entrati a far parte dei Jokers Wild nell’ultimo periodo. Il trio si esibisce con il nome di Flowers, poi Bullitt, ma non ottiene successo commerciale. Sono momenti difficili, tuttavia il Nostro contribuisce come voce principale a due canzoni della colonna del film Due settimane a settembre, titolo originale A Coeur Joie, con Brigitte Bardot, prima del mesto ritorno in Inghilterra. 

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L’arrivo nei Pink Floyd e l’addio a Barrett

Dopo la pubblicazione del loro album di debutto in studio, The Piper at the Gates of Dawn, splendido manifesto psichedelico e d’avanguardia, i Pink Floyd sono in crisi. Syd Barrett, mente geniale del gruppo, sembra definitivamente perso nei meandri della follia, affondato nelle sabbie mobili delle droghe. Proprio Gilmour, di rientro dal suo girovagare senza costrutto, assiste alla registrazione di See Emily Play e constata con tristezza lo stato di appannamento del suo amico, che stenta a riconoscerlo. Nel dicembre ’67 Mason invita David a unirsi alla band.

Tutti sperano che l’aggiunta di un personaggio conosciuto e stimato possa far bene a Barrett, ma sono speranze vane. La pazzia lo ha spento soffiandoci sopra come si fa con un fiammifero. Nel marzo dell’anno successivo egli stesso accetta di lasciare il suo posto nella formazione. Nasce A Saucerful of Secrets, ove lo spirito e l’estro di Syd ancora aleggiano insieme alle prime gesta di Gilmour e segue la colonna sonora di More, in cui le abilità di cantante, autore e polistrumentista (suona anche il flauto!) di quest’ultimo cominciano ad affiorare.

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Gli insuperabili anni Settanta

Da Ummagumma a The Dark Side of the Moon

Sono bastati pochi anni per oscurare una delle menti illuminate dei sixties, e senza di lui cambiano necessariamente le visioni e la musica, non più sospesa tra fiabe e allucinazioni, realtà e sogno, ma ora meditativa, oscura e a tratti implosiva. Trionfa il carattere lunatico e scontroso del nuovo leader, Roger Waters. Ummagumma (1969), album sperimentale concepito doppio con registrazioni dal vivo e in studio è l’anticamera di Atom Heart Mother, un’opera ambiziosa (fin dalla copertina diventata iconica) che si affaccia sul nuovo decennio. Il disco spalanca le porte del successo senza la ricerca del compromesso commerciale per ottenere un buon riscontro di vendite.

Il lato A è una lunga suite, contrappuntata da dolci ballate come If e Summer ’68 su quello B. Meddle (1971), con la celeberrima One of These Days cattura i Pink Floyd ancora in bilico tra passato e futuro, con il gruppo nella condizione di perdere tutto, far bruciare un fuoco di paglia o conquistare il mondo.

La seconda possibilità si concretizza con The Dark Side of the Moon, uno degli LP più venduti al mondo, nato sotto la guida di Waters, ma con un Gilmour ormai ben integrato nei meccanismi compositivi. La sua sei corde è il punto di riferimento in parecchi pezzi, uno showcase delle sue abilità, ed è inconfondibile in Time e Money, brani da enciclopedia del rock. Alan Parsons, l’illustre sound engineer del disco, racconterà che il suono della chitarra è essenzialmente quello prodotto dall’amplificatore senza effetti aggiunti nella control room. Un’ulteriore dimostrazione di una padronanza assoluta!

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Wish You Were Here e la crisi di The Wall

Il sentimento di amore e amicizia nei confronti del compagno smarrito Syd riaffiorano in due perle del pop del calibro di Shine On You Crazy Diamond e Wish You Were Here. David è sempre in primo piano, nella prima sfodera un suono nitido, aiutandosi con il tremolo e l’uso sapiente della leva del vibrato. Tuttavia è eclettico anche in versione acustica, con le sue Martin D12-28 e D-35 nella title track di ancora un altro lavoro da ricordare, di inestimabile valore e grande successo. In Animals (1977), dato alle stampe due anni dopo, si odono i primi scricchiolii di un gruppo che da ben rodato in studio e dal vivo con la collaborazione di tutti i membri, comincia a diventare unicamente il progetto di una sola persona.

Il fantastico concept album The Wall immortala le angosce e tormenti di Waters con alcuni guizzi di Gilmour. Run Like Hell è una splendida cavalcata a metà strada tra rock classico e modernità elettroniche, mentre Comfortably Numb rimane nella storia della musica non solo per la struggente melodia, ma pure per i virtuosismi fantasiosi creati con la mitica Black Strat. L’assolo nasce proprio nel classico modus operandi del Nostro: prima incide svariate svisate con intensità e idee differenti, poi decide quali sono le parti migliori di ognuna e salta da frase a frase con i fader del mixer finché il tutto non si assembla in un insieme omogeneo. Geniale ed efficace, sa come toccare il cuore dell’ascoltatore con un pathos da brivido.

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“Il Muro è crollato”, arriva il periodo post Waters

A Momentary Lapse of Reason. Cronaca di un album sofisticato e di una tournée attesissima

The Final Cut rappresenta l’ultimo esercizio di stile dell’era Waters, con Wright ormai fuori dalle scene e Gilmour semplice esecutore delle trame e sonorità ideate dal compagno. Not Now John è il brano di rilievo che suggella la fine della leadership del cantante e bassista londinese. Liti, disaccordi fino alla causa intentata per i diritti sul nome macchiano la “fedina musicale” di una formazione che, nonostante tutto, riesce ad andare avanti con il chitarrista e Mason, reclutando nuovamente Wright. A Momentary Lapse of Reason è l’inaspettata rinascita del 1987.

Dalle ceneri del gruppo si materializza nuova musica, un album compatto e degno successore delle opere precedenti. Per Gilmour, impegnato peraltro anche in progetti solistici, l’opera rappresenta un ritorno al passato con un sound moderno. Le liriche non offuscano più le trame musicali, ma si bilanciano lasciando spazio a nuovi esperimenti, a un viaggio verso paesaggi sonori senza confini. Brilla il singolo Learning to Fly, desta sorpresa il blues psichedelico di The Dogs of War, colpisce la potenza di One Slip ed emoziona l’elegiaca Sorrow. Tuttavia sono le intense esibizioni catturate dal vivo nell’agosto ’88 in Delicate Sound of Thunder (al Nassau Coliseum di Long Island) a esaltare le qualità di un songwriting che non ha niente da invidiare rispetto ai precedenti lavori. 

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Un tour straordinario e di grandissimo successo, dopo sedici anni di iato, che si snoda dal 9 settembre 1987 al 18 luglio 1989. 197 show in ogni parte del mondo, dall’Unione Sovietica alla Nuova Zelanda, con la chicca della data a Venezia. Il concerto numero 198 si concretizza in un’occasione eccezionale, in quell’evento fenomenale tenutosi il 30 giugno 1990 a Knebworth. Un’altra performance indimenticabile, sotto gli applausi scroscianti di oltre 120000 spettatori…

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The Division Bell e l’innovazione tecnologica di Pulse 

The Division Bell (1994) è un ulteriore, importante tassello nella carriera del gruppo, seppur osteggiato inizialmente dalla critica. Richard Wright torna ai fasti degli anni Settanta tra alchimie sonore e interessanti contributi compositivi, come la bellissima, nostalgica Marooned, sfoderando le sue doti di vocalist nella piacevolmente ombrosa Wearing the Inside Out. Pure Mason non perde un colpo e il suo tocco si fa irresistibile in pezzi da novanta del calibro di What Do You Want From Me e Poles Apart. Il vero, insindacabile re rimane comunque Gilmour, che esce allo scoperto con voce, chitarra (non c’erano dubbi!) e una manciata di canzoni eccezionali.

Il rock di Take It Back, le attitudini visionarie di A Great Day for Freedom e Lost for Words, e l’epicità di Keep Talking (ove fa capolino un Heil Talk Box) e High Hopes, probabilmente le tracce maggiormente toccanti e innovative del disco, lo mostrano in grandissima vena. La testimonianza più chiara e veritiera di quanto la band stia raggiungendo un nuovo apice avviene con la pubblicazione di Pulse, un concentrato di passato, presente e futuro. Uno show avveniristico, carico di effetti scenici e filmati, ove le nuove composizioni si inseriscono perfettamente nel contesto, prima di una seconda parte interamente dedicata a The Dark Side of the Moon e ad altri brani storici. Un’esperienza resa disponibile in un CD/DVD dal suono cristallino, con ancora tanti fra i bravissimi session man di lusso presenti in Delicate Sound of Thunder, da Jon Carin a Guy Pratt.

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Gli ultimi progetti a marchio Pink Floyd

Sono ovviamente innumerevoli le compilation, ristampe, raccolte e i live inediti realizzati negli ultimi trent’anni da una delle più grandi band di tutti i tempi, con una stima di oltre 250 milioni di dischi venduti. Il gruppo viene indotto nella Rock & Roll Hall Of Fame nel 1996 e non smette di stupire con la Reunion del 2005 insieme al redivivo Waters.

Non poteva che accadere al Live 8 organizzato da un amico speciale. L’affascinante giostra dei corsi e ricorsi storici regala un altro giro proprio con l’amico comune Bob Geldof, l’interprete di Pink nel film The Wall, 1982, ove si era praticamente sancito il divorzio tra Roger e il resto della formazione. Ora, invece, il cantante e attivista irlandese compie il miracolo di rimetterli in pista, almeno per un’esibizione. Tuttavia gli attriti permangono e si acuiscono ancor maggiormente col tempo, nonostante altri illusori avvicinamenti nel 2010 e 2011. The Endless River (2014) è il canto del cigno del sodalizio, lavoro principalmente strumentale dedicato all’immenso Richard Wright, passato a miglior vita nel 2008.

Vi è però un ultimo squillo, nel 2022, teso a interrompere il silenzio che sembrava definitivo dei Pink Floyd. E, come spesso capita con Gilmour, avviene per un’iniziativa benefica. Hey, Hey, Rise Up, basata su un inno ucraino del 1914, coinvolge Andriy Khlyvnyuk dei BoomBox e viene pubblicata insieme a una nuova versione di A Great Day for Freedom, con tutti i proventi devoluti all’Ukraine Humanitarian Relief Fund. 

Quello dei Pink Floyd è un gruppo unico, straordinario, con ormai quasi sessant’anni di storia; sopravvissuto a qualsiasi ingiuria e più forte di qualsiasi cosa. Parafrasando una delle loro ultime canzoni, è un gruppo “più forte delle parole”, dei fiumi d’inchiostro talvolta versati a sproposito, solo per far male o creare zizzania. Immortali.

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La carriera solistica. Il picco di On an Island e le grandi performance dal vivo

L’isola felice di David

Dopo l’esordio rock blues con il disco omonimo nel 1978, ancora in piena era Waters nei Pink Floyd, ma con la band ormai sull’orlo del collasso, arriva l’interessante About Face (1984). Il lavoro è un riuscito melting-pot che condensa progressive e new wave aggiungendoli alle solite influenze pop rock e, in alcuni brani come Murder, strizza l’occhio al funky. Gilmour si circonda di turnisti di gran classe. Da Pino Palladino a Jeff Porcaro, con ospiti del livello di Steve Winwood, Jon Lord e Anne Dudley sotto l’attenta supervisione di Bob Ezrin.

Il fiore all’occhiello della sua discografia è però sicuramente On an Island (2006), in cui si riappropria dell’eredità pinkfloydiana dimostrando di essere un musicista sopraffino e un inconfondibile stilista della chitarra. I crescendo lenti e suggestivi presenti nel disco rimandano alle atmosfere dei Settanta. Tuttavia si respira un’aria contemporanea, con l’incipit strumentale fornito da Castellorizon, il passo lento e armonioso della stupenda title track, arricchita dai cori di Graham Nash e David Crosby. Anche il resto dell’opera non delude, dall’intrigante andamento blues di This Heaven all’orchestrazione romantica di Where We Start. La produzione dello stesso chitarrista (che suona l’alto sax in Red Sky at Night!) è impeccabile con la scelta di timbri e arrangiamenti favolosa.

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Il formidabile Live in Gdańsk, l’intenso Rattle That Lock e il deja vu di Pompei

La dimensione dal vivo rimane sempre il luogo migliore per esprimere la maestria dell’artista britannico. Il sontuoso Live in Gdańsk (2008) è un’eccellente occasione per far emergere la bellezza di On an Island e riproporre alcuni classici intramontabili. Occorrono poi sette anni (a parte la parentesi sperimentale ambient house del 2010 con The Orb)  per passare a Rattle That Lock, ultima fatica in studio, corredata da alcune composizioni di grande intensità, con l’intrigante opener strumentale 5 A.M., la visionaria title track e la sorprendente, swingante, The Girl in the Yellow Dress.

Ancora una volta Gilmour si circonda di una pletora di special guests, tra i quali Phil Manzanera, Robert Wyatt e Jools Holland. L’opera si rivela di alto lignaggio, pur senza toccare i fasti precedenti. A raggiungere livelli epocali ci pensa invece il susseguente Live at Pompeii (2017), con il ritorno in quell’anfiteatro storico a quarantacinque anni dal film di Adrian Maben. E ora, dopo quasi una decade senza musica nuova, si vocifera da tempo di un disco previsto entro il 2024. Non ci resta che aspettare fiduciosi.

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Le chitarre di David e la sua incredibile produzione discografica come special guest in studio e dal vivo

Il mondo a sei corde di David

Negli assoli di David Gilmour si ode un suono caratteristico, familiare, facilmente identificabile, però impossibile da emulare. Le note si alzano, prendono forma e vanno a pennellare affreschi di vita. Marooned, ad esempio, dà l’idea di un totale abbandono alla Natura per superare un momento di solitudine, mentre il sole sanguina oltre le nuvole.

Il celeberrimo “guitar solo” di Another Brick in the Wall, Part 2 mette invece in musica l’aspirazione all’eternità. Ma anche la condizione di fragilità e il destino di caducità insiti nell’essere umano. Sono tante le emozioni, le sensazioni provate ascoltando le canzoni di quest’affascinante artista. Un uomo di poche parole, comunque sempre profonde e sentite, che in genere preferisce far parlare la musica e le sue chitarre. E a proposito di chitarre come sarebbe possibile chiudere un articolo su di lui senza parlare delle sue più famose?

Dalla prima posseduta, la Hofner Club 60, alle mitiche Fender Stratocaster e Telecaster anni ’60. Come non ricordare, poi, l’iconica Black Strat del ’69, la sua adorata Martin D-35 (non si potrebbe nemmeno pensare a Wish You Were Here senza di lei!) e la Gibson Les Paul Goldtop datata 1955? 

Spiccano poi una Fender Deluxe 6 Lap Steel, utilizzata a partire dal ’94 in sostituzione della storica Blonde Jedson, la 1955 Fender Esquire, la Telecaster Custom del ’59 e le mitiche 1954 Fender Stratocaster #0001 e 57V (Candy Apple Red). Quest’ultima, nella versione Replica del 1984 viene usata durante i tour di On an Island, The Division Bell e A Momentary Lapse of Reason, e, andando ancora più indietro nel tempo, a Live Aid, nello show con Bryan Ferry.

EMG DG20 BK/BK

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Un “sessionman” coi fiocchi

Proprio la sua partnership con l’ex frontman dei Roxy Music apre le porte a un altro importante capitolo sul geniale chitarrista. Lo abbiamo visto sempre impeccabile, curioso e sperimentatore con i Pink Floyd e da solista, in sala di registrazione e sul palcoscenico. La sua generosità si è palesata nella partecipazione a progetti legati a temi quali i diritti degli animali, l’ambientalismo, i senzatetto, la povertà. Inoltre fanno ormai parte dell’immaginario collettivo le splendide esibizioni dal vivo con altre importanti rockstar e la sua costante disponibilità ad aiutare il prossimo. Rimane leggendario il supergruppo formatosi in sala di incisione per Rock Aid Armenia (1989). Fa un certo effetto vedere nel rifacimento di Smoke on the Water giganti dello strumento del calibro di Brian May, Tony Iommi, Ritchie Blackmore, Alex Lifeson e Chris Squire suonare felici insieme a lui.

Sono innumerevoli, poi le sue sessioni in studio per artisti disparati, a dimostrazione di un’incredibile ecletticità e buon gusto per la contaminazione. Da superstar a nomi poco noti (e l’elenco potrebbe continuare per diverse righe) eccovi Arcadia, Supertramp, Michael Kamen, Elton John, Paul McCartney, Ringo Starr, Jools Holland, Sam Brown, Propaganda, Liona Boyd, Roy Harper e la pupilla Kate Bush.

Il Nostro collabora, ovviamente, anche con pregiati chitarristi di ogni genere, da Pete Townshend a B.B.King, con il quale si cimenta sia in studio, sia live. 

In particolare, poi, Gilmour si dedica a un re della sei corde tormentato. Un personaggio importantissimo per la storia della musica moderna tuttora, purtroppo, ancora tanto sottovalutato: Peter Green

Il ciclo “Crossroads”, con i suoi incroci tra grandi artisti/chitarristi si appresta a dare alla stampe un’altra imperdibile puntata!

Stay tuned

To be continued…

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Alessandro Vailati