Gary Moore era magico, moderno, divino. Con la sua adorata Gibson Les Paul riusciva a esprimere i moti del proprio animo, i sentimenti e le emozioni in tutte le loro delicate sfaccettature. Un musicista dal suono indimenticabile, come assolutamente indimenticabile è la storia del legame con Peter Green: non solo un maestro, ma probabilmente la persona più importante per la sua carriera. Due personaggi speciali, unici, appassionati di blues e di chitarre più della loro stessa vita.
Da “Greeny” a Blues for Greeny
Quel magico incontro all’alba degli anni Settanta
“Mi chiese se volevo prendere in prestito quel meraviglioso strumento. E io gli ho risposto: ‘Fanculo, certamente!’. Che altro avrei potuto dire? Così sono andato a ritirare la chitarra a casa dei suoi genitori. L’ho tenuta per qualche giorno e non riuscivo a credere di averla tra le mani. Ero così spaventato che potesse succedere qualcosa, perché vivevo in un monolocale a Belsize Park e dovevo portarla insieme a me dappertutto in quanto non c’era la serratura alla mia porta”. Estratto da un’intervista a Guitar World del 1995.
Chissà come deve essersi sentito, cosa può avere provato nel profondo del cuore un giovane Gary Moore trovandosi al cospetto del proprio idolo Peter Green. Diventare suo amico e confidente improvvisamente, in quei freddi giorni di fine 1969 e inizio 1970, quando con gli Skid Row, gruppo irlandese fresco di due singoli alla ricerca di un contratto discografico degno di tal nome, è l‘opening act dei Fleetwood Mac. Scoprire in anteprima con sbigottimento le frustrazioni e i cattivi pensieri del suo maestro, che gli confida l’intenzione di abbandonare la band all’apice del successo e ricevere la sua mitica Les Paul Standard del ’59 in prestito.
Green, d’altronde, è sempre stato di una generosità senza confini, non ha mai ragionato per tornaconti. Così dopo alcuni giorni gli propone pure di comprarla, e desidera solamente riprendersi quanto speso per l’acquisto. Mai interessato veramente ai soldi, recupera da Gary, che a sua volta vende la sua Gibson SG, un centinaio di sterline e l’affare è fatto. Inizia così una nuova epopea per Greeny. Cambia il proprietario, mutano le attitudini, permangono anima e sentimento. Si passa da una pacatezza geniale a un’inventiva torrenziale. Due facce della stessa medaglia, il blues, vissuto in maniera diametralmente opposta, tuttavia con il medesimo risultato. Provocare un diluvio di emozioni, esprimere tutta la passione con l’arte della musica, rendere l’ascoltatore partecipe, parafrasando il titolo di una canzone memorabile, di “Un amore che brucia”.
Venticinque anni dopo: il disco tributo del 1995
L’unico interesse di Peter è quello di dare un nuovo padrone a Greeny. Deve essere uno di fiducia, in grado di apprezzarne il valore intrinseco e proseguire il flusso artistico. Questa è la magia della musica! Poco prima le persone sono estranee, un attimo dopo si siedono, prendono in mano uno strumento ed è come se avessero suonato insieme da sempre. Molte delle amicizie più durature si forgiano in studio, in tour. Lo stesso accade anche per Moore e Green. È un’intesa tacita, un’empatia che nasce nel territorio creativo e cementata, saldata fisicamente da una chitarra.
Dopo tanti successi nati, concepiti e incisi con questa magica Les Paul, fra cui una delle sue canzoni per eccellenza, Parisienne Walkways, Gary decide che è il momento di omaggiare l’uomo da cui ha avuto origine tutto, eterna fonte d’ispirazione nei momenti più bui, stimolo a non mollare e zattera di salvataggio nel mare delle asperità. Il progetto Blues for Greeny vede la luce quando il “funambolo di Belfast” ritrova il successo. Ma soprattutto se stesso, per merito di album ed esibizioni live nuovamente focalizzate su ciò da lui più amato, il blues.
Un ritorno alla passione e all’innocenza della sua adolescenza, ove divampava l’amore per John Mayall, i suoi Bluesbreakers e per gli straordinari chitarristi coinvolti nel progetto:da Eric Clapton e quella All Your Love di Otis Rush ascoltata giorno e notte, alle incantevoli note di Peter Green in Supernatural, fino alle successive Worried Dream, Albatross e Need Your Love So Bad dell’era Fleetwood Mac.
L’inconfondibile suono di Greeny
La registrazione del disco viene effettuata ovviamente con la stessa Gibson Les Paul Standard del 1959 presente nei brani originali. I quasi otto minuti di Need Your Love So Bad, l’affabulatrice Long Grey Mare, le ipnotiche The Same Way e Driftin’ brillano in una raccolta in cui si percepisce il peso che le melodie di Green e il suo stile inconfondibile hanno avuto nella formazione di Moore. L’artista irlandese non adotta un approccio tradizionalista e filologico nelle undici tracce, ma le interpreta alla sua maniera, dimostrando un’evoluzione, pur mantenendo con riverenza la continuità dell’insegnamento di Green.
Il filo conduttore è la particolarità del sound “nasale” di Greeny, originatosi, come spesso capita nel mondo delle invenzioni, per una serie di tentativi e sbagli mentre si ricerca qualcosa di differente e innovativo. Un suono sbalorditivo, diverso, difficile da catalogare, dovuto all’inversione di polarità del magnete del pickup al manico, che genera un atipico effetto di out-phase quando accoppiato con il pickup al ponte. Un prodigio creato dall’ex leader dei Fleetwood Mac accidentalmente, durante un errato smontaggio e rimontaggio del pickup, con in testa l’idea di emulare Clapton nel leggendario Beano Album.
Le affinità elettive tra Gary Moore e Peter Green
Un legame speciale, indissolubile. Anche il periodo di maggior oblio vissuto da Green non ha offuscato il ricordo di Moore, felice di rivederlo sul palcoscenico, nonostante i continui tormenti, a cavallo del nuovo secolo. Le radici comuni, con l’amore spassionato per il blues di Chicago e quello delle origini, da Son House a Robert Johnson, li hanno resi spiriti affini, con l’uno a recitare il ruolo di fratello maggiore e l’altro pronto a recepire i suoi consigli, letteralmente ammaliato dalla sua passione e purezza.
Una vita difficile anche per Gary, piena di saliscendi emotivi e costellata di successi e momenti dolorosi. Un’esistenza travagliata, sempre in tensione, con un’innaturale e continua ricerca della perfezione e la conseguente insoddisfazione per il mancato raggiungimento dell’obiettivo, impossibile da centrare anche per un gigante della chitarra come lui. Un genio dalle qualità smisurate, purtroppo non sempre in grado di camminare in equilibrio in un mondo dalle mille vertigini.
Dall’ossessione per il Beano Album ai Thin Lizzy
Nato predestinato
Il 4 aprile 1952 vede per la prima volta la luce a Belfast Robert William Gary Moore. Figlio di un promoter musicale, il bambino Gary mostra subito una spiccata vena artistica. Fin da piccolo canta nel locale del padre, il quale, compiuti i dieci anni gli regala una chitarra acustica da lui costruita usando un corpo di marca Framus.
Il ragazzo la strimpella con veemenza, è tanto appassionato da “dimenticare” di essere mancino, prendendo così dimestichezza con gli strumenti per destrimani. Elvis Presley, gli Shadows e gli Everly Brothers sono i suoi primi riferimenti. Il rock è per lui valvola di sfogo in un’adolescenza tristissima, segnata da diversi episodi di bullismo subiti a scuola, dal clima austero causato dagli scontri religiosi tra cattolici e protestanti e dai continui litigi familiari a casa. Il suo riscatto è rappresentato dall’amata sei corde, ora diventata una Lucky Squire sempre grazie a papà.
Ben presto forma la sua prima band, specializzata prevalentemente in cover dei Beatles, tuttavia la vera epifania per lui è il già citato disco di Mayall con Clapton e i Bluesbreakers. Il Beano Album, così soprannominato per il fumetto letto da Slowhand in copertina, lo magnetizza, niente sarà più come prima per lui, che nel frattempo ha convinto il padre a comprargli una Fender Telecaster.
Seguono esperienze con altri gruppi, lo sviluppo di una bella amicizia con Rory Gallagher e una forte infatuazione per Jimi Hendrix, finché nel ’68 si muove a Dublino. Inizia l’era Skid Row e proprio grazie all’interessamento di Green pubblica con il gruppo due lavori. Le sue avventure in chiave hard ai confini con il metal proseguono poi con gli indimenticati Thin Lizzy di Phil Lynott, una sua vecchia conoscenza.
L’inizio della carriera solista e alcuni progetti sorprendenti
Gli anni Settanta sono proficui per “Gazza” sotto ogni punto di vista.
Il suo chitarrismo è già un qualcosa di fisico, un alone, un quid in più che si trascina ed entra nel cuore della gente. E il suo rapporto con Lynott, pur vivendo di clamorosi alti e bassi, lo rende più maturo e conscio delle sue capacità. Phil è la stampella su cui può appoggiarsi per suonare in studio e dal vivo con i Thin Lizzy, ma è anche il trampolino di lancio per il suo vero esordio solista, Back on the Streets (1978), dopo l’acerbo Grinding Stone (1973) realizzato a nome The Gary Moore Band. Parisienne Walkways si nutre proprio del pregiato connubio Lynott/Moore e rappresenta la ciliegina sulla torta di una decade avventurosa, che vede il Nostro imperversare pure con i Colosseum II, attraversando territori jazz fusion.
Gli Ottanta cominciano anch’essi a spron battuto con l’esperimento (voluto dalla nuova casa discografica Jet Records per creare la risposta britannica ai Van Halen) del supergruppo G-Force, l’inaspettata partnership con Greg Lake e una serie di album ove si distinguono le collaborazioni con alcuni session man di lusso, dai bassisti Neil Murray e Bob Daisley ai mitici tastieristi Tommy Eyre e Don Airey. L’eclettico polistrumentista Neil Carter e l’illustre Ian Paice, il “re dei batteristi” sono altri nobili esempi presenti “in cartellone”, mentre l’attività live è sempre di primo livello e lo consacra come Re indiscusso della Chitarra. Scorrono titoli come Corridors of Power e Run for Cover con brani di notevole valore artistico del calibro di Always Gonna Love You, ballata strappalacrime, Falling in Love with You, e la nuova versione di quel piccolo capolavoro chiamato Empty Rooms.
La svolta di Still Got the Blues
Da un terribile lutto arriva la forza di continuare
L’improvvisa morte per overdose di Lynott nei primi giorni di gennaio ’86 è un duro colpo per Moore. La terribile tragedia lo getta nell’abisso dello sconforto. Il loro è sempre stato un rapporto molto teso, ma negli ultimi tempi l’amicizia si era rinsaldata anche se in realtà Gary non aveva mai perdonato a Phil quel culto dell’eccesso che lo aveva portato dritto nella tomba.
Pure “Gazza” non è comunque mai stato uno stinco di santo. Alcool, droghe e scappatelle amorose lo terranno continuamente lontano da una vita stabile, ma, a differenza del compagno di mille avventure (a cui dedica l’intero Wild Frontier, 1987) riesce a evitare di superare il punto del non ritorno ed è convinto di avere ancora molto da dire e da fare. Così partecipa con un incredibile e lacerante assolo dei suoi alla rilettura di Let it Be insieme ai Ferry Aid, per un’operazione benefica, e pubblica After the War, con Ozzy Osbourne fra gli ospiti, un’interessante commistione di musica celtica e heavy rock. Subito dopo arriva il momento della svolta, o meglio della piena riscoperta di quel genere che lo aveva accompagnato, dandogli forza e coraggio, durante le terribili difficoltà vissute nella sua adolescenza, offrendogli l’opportunità di redenzione.
La “benedizione” di Albert King e Albert Collins: due ospiti illustri per l’album più importante di Gary Moore
Un’azzeccata miscela di brani autografi e cover
“Non pensavo realmente che sapesse suonare. Credevo fosse semplicemente un altro ragazzo intento a buttarsi nel mondo del blues. Poi però l’ho udito esibirsi dal vivo, lanciarsi nelle cose più incredibili. Perbacco, mi sono detto, ma da dove diavolo è saltato fuori?”
Albert King
Still Got the Blues rasenta la perfezione. La sua Gibson domina in tutto il disco, spesso ben contornata dal piano di Mick Weaver e dall’Hammond di Don Airey. Moving On è un perfetto opener, deciso, vibrante, simbolo del mutamento in atto pure nel testo, con tanta slide che strizza l’occhio a Elmore James e prepara alla prima sorpresa, Oh Pretty Woman, lo standard di A.C. Williams innaffiato da un diluvio di chitarre, grazie alla presenza anche di un vero re, di nome e di fatto, Albert King.
Still Got the Blues: uno dei più bei blues moderni mai scritti
“So long, it was so long ago
But I’ve still got the blues for you”
Un’altra cover, la rumorosa Walking By Myself, stavolta di Jimmy Rogers, evidenzia il bending dell’istrionico ragazzo irlandese, prima della title track, un brano dalla bellezza sconvolgente. Arriva così il momento della più profonda commozione, quasi inaspettato dopo un inizio tanto folgorante. Questa è la tormentata bellezza di chi vive e desidera raffigurare con sincerità l’altalena di emozioni che offre l’esistenza, e conserva latente dentro l’anima quel pizzico di nostalgia e infelicità, pronto ad emergere pure nei frangenti maggiormente gioiosi, una sorta di preparazione al dolore. Dolore che sgorga nella sua canzone più famosa, più struggente, con quel “solo” mortale che fa lacrimare la Les Paul e chiunque abbia provato mal d’amore almeno una volta.
Una chicca dietro l’altra
I sei minuti di Still Got the Blues volano via in un istante, ma non vi è un attimo per riprendersi, sovrastati da Texas Strut, omaggio agli ZZ Top, a quella forza della natura di Stevie Ray Vaughan con i suoi Double Trouble, e Too Tired, dal repertorio di Johnny “Guitar” Watson, nel quale fa capolino un altro “professore” della sei corde, “The Ice Man”, al secolo Albert Collins, per una tempesta di assoli tra lui e Gary.
King of the Blues è impregnata fino al midollo di quel sound caratteristico della Stax e la seguente As the Years Go Passing By prosegue l’atmosfera incantata, quel piacevole ritorno ai tempi che furono. La “notturna”, lancinante Midnight Blues chiude le danze in maniera elegante, dimostrando che la musica del diavolo può essere modernizzata senza perdere le peculiarità della tradizione; se ne utilizzano le radici per far crescere nuove diramazioni e consentire un più ampio respiro.
Un nuovo, grande successo in due decenni intensi
L’irresistibile fascino di Blues Alive: da incantevoli ballate a feroci assalti chitarristici
Still Got The Blues permane per sempre il suo masterpiece, che gli regala stima presso gli addetti ai lavori, un incredibile riscontro commerciale e la celebrità internazionale, e rinverdisce l’adorazione per il blues, spingendo verso quel genere un nuovo stuolo di chitarristi in erba estasiati dalle sue esibizioni. After Hours (1992) e il roboante, intenso Blues Alive, un’altalena di emozioni catturate dal vivo (1993), sanciscono l’apice creativo dell’artista. In particolare quest’ultimo sciorina un’entusiasmante Parisienne Walkways. Il brano viene non a caso scelto come singolo per il lancio dell’album. Gary Moore si esibisce in assoli lamentosi, intrisi di blues e colpisce per il suo canto sofferto, quasi sussurrato, in quella che originariamente era stata concepita come una ballata strumentale.
Jumpin’ at Shadows è la toccante chiusura del disco e si ricollega alla sua costante passione per Peter Green, a cui dedica il successivo Blues for Greeny (di cui abbiamo già ampiamente parlato), dopo la parentesi di un anno prima di Around Next Dream con i BBM. Scritta da Duster Bennett, musicista britannico praticamente sconosciuto ai più se non per questo pezzo reso famoso dai Fleetwood Mac, Jumpin’ at Shadows evidenzia in modo inequivocabile il cambio di rotta di Gary Moore. Le cavalcate heavy sono solo una piccola parte del repertorio e sovente sono finite in soffitta. Ora il blues con le sue ballate colora di nuove tonalità i gemiti della sua Gibson, con un suono pulito e profondo che entra nel cuore della gente esprimendo quella malinconia e sofferenza unica di quel genere, ove tristezza e gioia panica convivono nello stesso momento.
Le ultime opere e l’improvvisa scomparsa
“Ho imparato a non avere paura di lasciare spazi. Tutti i chitarristi temono di lasciare un buco, temono di caderci o qualcosa del genere! Tuttavia alla fine ci si sente a proprio agio e diventa una seconda natura farlo. Si crea una grande tensione per il pubblico. Ricordo che ai tempi andavo a vedere gente come Peter Green e provavo quella sensazione: ‘Oh, cavolo, non vedo l’ora di sentire quella chitarra’. O solo un’altra nota, perché il sound è così bello quando la suona. Se hai un feeling con il blues, è una parte importante. Ma devi lasciare questo spazio.”
Estratto da un’intervista a Guitar Player del 2007
Back to the Blues (2001), Power of the Blues (2004) e Close As You Get (2007) sintetizzano alla perfezione le affermazioni di Moore e rimangono sicuramente da ricordare tra le tante pubblicazioni (non sempre all’altezza della sua fama), alle quali meritano di essere aggiunti l’eccellente doppio DVD The Definitive Montreux Collection e lo scrosciante Blues for Jimi, uscito postumo.
Sono ormai passati più di tredici anni dalla morte di Gary Moore, deceduto nel sonno per un attacco di cuore il 6 febbraio 2011, probabilmente in seguito ad una nottata all’insegna dell’eccesso di alcool. Nell’ultimo periodo il declino psicofisico, dovuto anche a ristrettezze economiche che lo porteranno pure a cedere l’inseparabile Greenie, si manifesta in maniera evidente; è ormai l’ombra di se stesso, un’anima in pena, vittima di problemi irrisolti, legato a troppi vizi e a un’intricata sfera sentimentale. Un uomo e un artista incredibile, con un talento incommensurabile, un’intelligenza e una curiosità rare distrutto dagli eccessi
“Influente, gentile, potente, genuino, autentico, leggenda, titano della musica”. Sono solo piccoli stralci delle bellissime parole espresse da Glenn Hughes, Joe Bonamassa, Brian May (molto vicino a lui per stile chitarristico e sonorità), Kirk Hammett, Jack Bruce ed Eric Clapton, semplicemente alcune fra le tante star a esprimere commozione e cordoglio o dedicargli una canzone. L’immenso vuoto lasciato viene in parte colmato grazie alla sua splendida musica, scorciatoia verso la bellezza capace di fermare il tempo e far assaporare l’eternità.
“The summer rain like teardrops on my window.
Reminds me of a time so long ago.
And through each drop of rain I see,
Within my heart you’ll always be.
I pray you will remember me with love.”
Le chitarre di Gary Moore
“The only time I’m happy is when I play my guitar” è una frase della celebre N.S.U dei Cream, e calza a pennello per Moore, il quale era ovviamente circondato da meravigliose sei corde. Ma quali erano le più importanti e iconiche?
Abbiamo già parlato diffusamente della mitica Gibson Les Paul Standard 1959, ossia “Greeny”, ceduta nel 2006 e dopo varie peripezie finita nelle braccia di Kirk Hammett dei Metallica a partire dal 2014.
Epiphone Kirk Hammett “Greeny” LP Std.
Un’altra chitarra degna di nota è la Les Paul Standard soprannominata “Stripe”, utilizzata ad esempio per il suo brano più famoso, Still Got the Blues. Seguono le Fender Stratocaster, con la 1963 (Custom made, Natural, DiMarzios) e la 1961 Fiesta Red. Non si possono poi dimenticare la 1959 Gibson Les Paul Junior Cherry, la Charvel/Jackson Custom (Red) e la 1964 Gibson Firebird comprata per il BBM tour, probabilmente in riverenza di Clapton, vista la partnership con Ginger Baker e Jack Bruce. Infine meritano una menzione la Ibanez Roadstar RS1000, la Gibson ES-355TD-SV usata nei Live at Montreux di fine anni Novanta e, passando alle acustiche, la 1989 Takamine CP132SC e la A Line 6 Variax 700 Guitar, presente nel 2010 per l’encore number da brividi Johnny Boy.
Fender AV II 61 STRAT RW FRD
L’amore per le chitarre
Come abbiamo visto l’amore per le chitarre è profondamente legato alla sua incredibile passione per la musica, al suo pallino per il blues, primaria fonte di ispirazione alla quale è tornato ad attingere nella seconda (e qualitativamente più importante) parte di carriera. La sua vita e la sua storia artistica non sarebbero state le stesse se non avesse avuto come mentori Peter Green, John Mayall, Albert King, Albert Collins e B.B.King e non avesse continuato a frequentarli. Anche il lungo periodo di hard rock con lo sconfinamento nell’heavy metal, e alcune divagazioni in territorio pop hanno contribuito a forgiare un guitar hero formidabile, tecnico e veloce alla bisogna, tuttavia dolce e pieno di feeling nelle sue romantiche ballate dalle melodie uncinanti.
E pensando, in particolare, alla capacità di comporre riff e fraseggi eleganti, di far uscire note struggenti dalla sua sei corde abbinati a testi profondi e autobiografici non può che venire in mente un importantissimo legame con un maestro del genere, George Harrison. “The Quiet One” sapeva benissimo come infondere e intessere intuizioni complesse all’interno di canzoni apparentemente leggere. Una nuova puntata di “Crossroads”, la serie unica e speciale che trovate solo su Planet Guitar sta cominciando a prendere forma!
Stay tuned
To be continued…
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