Durante la sua esistenza George Harrison ha sempre mantenuto l’aura di artista puro. Viveva nel mondo materiale anelando a quello spirituale. Un obiettivo per niente semplice, che a volte lo rendeva taciturno e insoddisfatto. A tirarlo fuori da questa eccessiva seriosità ci pensavano la musica, una scorciatoia verso l’eternità, e alcuni amici fidati, conosciuti durante il lungo, eccitante percorso della sua carriera. Gary Moore era uno di questi “great friends”, una specie di divinità terrena pronta a prenderlo per mano e introiettarlo nel suo mondo magico e sballato, ove la chitarra dipinge gioia e sofferenza, l’unico percorso possibile per avvicinarsi alla meta senza spostare l’orizzonte.
That Kind of Woman, storia di una canzone collegata a tre grandi chitarristi
Da Journeyman a Nobody’s Child, passando per Still Got the Blues
Due album formidabili e di grande successo, pubblicati uno molto vicino all’altro, tre guitar hero leggendari e un’opera di carità. Quante storie all’interno di una canzone probabilmente fra le meno note del repertorio Harrison/Clapton/Moore, eppure così’ affascinante e importante a livello artistico. Ma andiamo con ordine. Durante le sessioni di marzo-aprile 1989 George Harrison propone a Eric Clapton un paio di brani per il suo album Journeyman (in uscita alla fine di quell’anno). La dolce Run So Far con le sue raffinate acrobazie armoniche riesce a entrare nella tracklist di un disco importante per Slowhand, tornato alla celebrità grazie alla scelta di ammodernare i suoni e infarcire di pop, jazz, soul e gospel il suo classico rock blues.
La più grintosa That Kind of Woman, invece, viene al momento accantonata e finisce, curioso il destino, nelle bonus tracks dell’edizione in CD di un’altra grandissima opera, Still Got the Blues di Gary Moore, data alle stampe nella primavera del 1990. L’ex beatle partecipa felice alla registrazione, contribuendo con la solita eleganza: sono sue le armonie vocali, la chitarra ritmica e, soprattutto, la slide, dal suono unico e speciale grazie al suo tocco inimitabile.
La versione di Clapton comunque non rimane “in soffitta” per tanto tempo. Viene rispolverata subito in estate per Nobody’s Child, raccolta di canzoni realizzata da Harrison al fine di sostenere la Romanian Angel Appeal Foundation, ente costituito per aiutare gli orfani rumeni dopo la caduta del comunismo. Tuttavia, se l’incredibile amicizia tra Eric e George è nota per un’infinita serie di motivi, artistici ed extra-musicali, quella tra “The Quiet One” e Moore si cementa proprio all’epoca di That Kind of Woman e regala tante sorprese inaspettate.
Tre chitarre e tre stili diversi per ognuno, una bellezza per tutti
È solo uno strumento con sei corde, la chitarra. Può essere, però, molto diversa nel sound, e diventare quindi una voce differente nelle mani di persone differenti. Tale concetto, tali considerazioni incarnano quanto possa davvero meravigliare la musica, con un luccicante caleidoscopio di sfaccettature personali che creano un unicum poi condiviso con tutti.
Pensiamo un attimo a Clapton, Gary Moore e George Harrison. Quegli assoli carichi di feeling, quel detto e non detto fra le note che affascina, quello stile rilassato, ma pronto a stupire a colpi di plettro di Eric pare distante dalle scale frenetiche, i bending rabbiosi e i vibrati portentosi di Gary. E i riff e la straordinaria abilità compositiva con accordi apparentemente semplici di George sembrano lontani anni luce dall’ideale di “eroe della chitarra” portato avanti dai primi due.
Eppure tutto è collegato all’emozione, alla gioia di ascoltarli mentre in modi diversi, come prodi condottieri dalle mille attitudini, esaltano la bellezza di una canzone con la loro arma pacifica, che colpisce senza mai provocare dolore, l’adorata sei corde. Anche While My Guitar Gently Weeps è nata e si è in seguito evoluta con loro, tanto da far rimpiangere quanto poco si siano frequentati Clapton e Gary Moore pur con così tante cose in comune. Ma questa è un’altra storia. Godiamoci ora gli altri bellissimi incroci, o meglio “crossroads”, come il nome della nostra rubrica esclusiva di Planet Guitar, tra George Harrison e Gary Moore.
I Traveling Wilburys e quei brividi provati alla Royal Albert Hall
She’s My Baby
“Ti faceva ridere. Era come uno scolaretto dispettoso con un luccichio negli occhi. Questo era George. Era un ragazzo fantastico e ho passato dei momenti bellissimi con lui”.
Estratto da intervista a All Out Guitar, 2007.
Un legame speciale, forgiato dall’amore spassionato di Gary Moore per i Beatles, idolatrati e imitati nei primi gruppi da lui formati e fonte di infinita ispirazione. Una fratellanza sviluppatasi profondamente a Londra negli anni Ottanta, prima di sfociare nella collaborazione in Still Got the Blues.
La gioia reciproca nel vedere quanta importanza abbiano avuto per entrambi Robert Johnson e Hank Marvin, lo sgomento di Gary durante la scoperta degli accordi iniziali giusti di Hard Day’s Night (“mi sentivo di merda, per tutti quegli anni avevo toppato alla grande l’intro!”) davanti a un divertito George sono fotografie istantanee, lampi di un’affinità elettiva intensa e giocosa.
Un’amicizia ben coltivata, parafrasando l’adorata attività di giardiniere intrapresa negli anni dal baronetto di Liverpool, che conduce a un’altra riuscitissima partnership nei Traveling Wilburys, sul finire del 1990. Il secondo disco dei “fratelli” Wilbury perde con grande tristezza uno dei membri fondatori, Roy Orbison, e risulta minore per qualità, varietà e vena compositiva rispetto all’esordio. Si salvano comunque un paio di pezzi e il singolo, She’s My Baby, caratterizzato dai ruggiti della Gibson di un’irrefrenabile Gary Moore, al servizio di Harrison, Tom Petty, Bob Dylan e Jeff Lynne.
George Harrison e Gary Moore, quando da una stima reciproca nasce qualcosa di profondo, filosofico e spirituale…
“È stato fantastico stargli vicino e suonare tutte quelle chitarre dei Beatles che erano appese al muro del suo studio”.
Estratto da intervista a All Out Guitar, 2007.
The Age of Plastic: come dice il titolo di uno dei dischi più rappresentativi del decennio, gli eighties sono famosi per aver colorato di leggerezza e vacuità il mondo della musica, con sonorità dominate dai sintetizzatori e da un approccio fugace, una filosofia semplicistica alla ricerca dell’immagine e del ritornello orecchiabile. In realtà dalle ceneri di quegli anni sono sorti e risorti nuovi generi che hanno caratterizzato le epoche a venire.
E anche grandi artisti del calibro di Harrison approfittano di quel frangente pieno di cambiamenti per tuffarsi in progetti antichi con rinnovato entusiasmo. Cloud Nine (1987) rappresenta una delle vette della discografia del “beatle tranquillo”, ed è in quel periodo che, grazie alla comunanza anche “geografica” (oltre ad essere entrambi in contatto con Ian Paice, George e Gary sono infatti vicini di casa) si forma un sodalizio vincente.
Gary Moore aveva sempre ammirato tanto la capacità di creare armonie meravigliose di George, prima nei Beatles poi da solista. Harrison adorava le sue incredibili doti di guitar player, la capacità di piazzare la nota giusta in un assolo e lacerare improvvisamente il cuore dell’ascoltatore, commuovendolo e portandolo a un passo dal pianto di gioia.
Corsi e ricorsi storici. While My Guitar Gently Weeps nelle mani di Gary Moore alla RAH
George si gode il “funambolo di Belfast” (e viceversa) non solo in sala di registrazione, ma anche on stage. Memorabile è il concerto del 1992 nel tempio dei templi, la Royal Albert Hall. Finalmente in forma celestiale, ritemprato dai successi degli show in Giappone e, per l’appunto, di Cloud Nine, il “giardiniere di Friar Park” torna a Londra dal vivo dopo il leggendario concerto “sul tetto” del 1969 e le comparsate al Prince’s Trust nel 1987. La band d’accompagnamento è perfetta (da Mike Campbell e Chuck Leavell a Steve Ferrone e Will Lee, con la chicca di un superospite finale del calibro di Joe Walsh), la scaletta pure, con tutti i suoi classici. Sorprende e tocca il cuore, infine, vederlo nuovamente a proprio agio sul palco.
Si notano un romantico e sensuale assolo in Something, la frizzante esecuzione di Got My Mind Set on You con la Roy Buchanan Bluesmaster e un gran lavoro di slide con la red Stratocaster in Cloud Nine. Poi, come un fulmine a ciel sereno, arriva il pezzo che da solo vale il prezzo del biglietto. Presentato come “incredible guitar player”, Gary Moore appare in scena insieme a Ringo Starr per una scintillante performance di While My Guitar Gently Weeps. George e Gary duettano con le rispettive Gibson Les Paul (una rarità per Harrison!) come se non ci fosse un domani, ma non è un duello, è un rispettoso match rivolto SOLO a cercare la bellezza.
Epiphone Les Paul Studio Wine Re w/Bag
L’ultima apparizione dal vivo di George Harrison
Ci sono storie che sembrano favole e favole che diventano storie: il 6 aprile 1992 si celebrano così l’ultima apparizione dal vivo di George Harrison e uno dei suoi concerti più belli, insieme ad alcuni dei suoi più grandi amici. E Gary Moore era uno di quelli. Nello showbiz vi sono stati parecchi compagni d’avventura fondamentali nella vita di questo grande personaggio, dai già citati Clapton, Dylan, Petty, Lynne a Delaney & Bonnie, Ravi Shankar, Carl Perkins, Eric Idle, Jim Keltner, Billy Preston, James Taylor, Paul Simon, Ronnie Wood, Gary Brooker, Alvin Lee, Jeff Healey e ancora tanti altri, come vedremo nei prossimi paragrafi. Ci soffermeremo in particolare su alcuni dei capolavori di “The Quiet One”, misterioso, ironico, affascinante e indimenticabile chitarrista, songwriter e “filosofo” della buona musica.
L’agrodolce avventura nei Beatles e l’inizio di un nuovo corso
Le prime esperienze e l’improvvisa incredibile notorietà
Il 25 febbraio 1943 nasce a Liverpool George Harrison. La famiglia, dai modi semplici, tipici della classe proletaria, lascia sviluppare fin da subito la passione del ragazzino per la chitarra, folgorato da mostri sacri del livello di Chet Atkins, Lonnie Donegan, Carl Perkins, Buddy Holly, Duane Eddy e Chuck Berry. La prima sei corde, una Gretsch Duo Jet, arriva con il contributo dei genitori e, tramite un suo compagno di scuola un poco più grande di lui, Paul McCartney, George comincia l’avventura nel mondo dello spettacolo.
Sono stati spesi fiumi d’inchiostro sui Beatles e sui loro componenti: certo è che, improvvisamente, inaspettatamente e repentinamente, quattro “marmocchi” riunitisi sulle rive del Mersey diventano idoli nazionali per poi ottenere un successo internazionale e planetario. Le loro performance incendiano l’entusiasmo di migliaia di giovincelle e la band funge da detonatore, dopo Elvis Presley, per portare a una nuova svolta epocale del rock. Non solo una bella immagine, il vestirsi alla moda e lo scimmiottamento di miti passati, si palesa anche un songwriting innovativo e profondo per melodie e liriche.
Il magico, speciale e irripetibile canzoniere di George Harrison nei Beatles
Introspezione, melodia, virtuosismo e musicalità orientale
Ridurre tutto il lavoro di George nel gruppo alla citazione delle ventidue canzoni da lui scritte è sicuramente un esercizio pleonastico. L’analisi di quelle più rappresentative tuttavia dimostra l’incredibile crescita compositiva del Nostro. Dall’esordio stentato di Don’t Bother Me (1963) si giunge alla “byrdsiana” If I Needed Someone (1965), si prosegue l’evoluzione con l’ironia funk rock di Taxman (1966), una perla capace di folgorare un giovane Stevie Ray Vaughan, e l’inizio di un cambio di rotta verso un’acuta introspezione grazie a Love You To e I Want To Tell You. L’influenza di Ravi Shankar si fa sentire nelle bellissime, intense e meditative Within You Without You (con un sitar da sogno!) e The Inner Light (1968), prima di toccare l’apice con tre capolavori, accompagnati da due brani da rivalutare con cura.
Cinque perle indimenticabili
Il paradosso della creatività di George: più si avvicina la fine dei Beatles, più l’artista sembra trovare e affermare la propria identità di musicista e compositore. While My Guitar Gently Weeps, influenzata sia dall’I Ching sia dagli animi agitati dopo il viaggio a Rishikesh, apre una nuova fase di dialogo interiore tanto potente da smuovere le montagne.
Ne è fulgido esempio Here Comes The Sun (1969), bozzetto estemporaneo assurto a classico dei classici, scritto in un momento di profonda ispirazione a casa di Clapton, a Hurtwood Edge. E merita una menzione la meno conosciuta, ma pungente come un coltello a serramanico conficcato nella pelle I Me Mine (1970). Con la band che si sta disintegrando anche a causa dell’ego smisurato di alcuni membri, le parole del testo pesano come un macigno, ed emerge il tentativo di ritrovare la propria identità: “Tutto quello che posso sentire. Io sono mio, io sono mio, io sono mio. Anche le lacrime”.
Nel 1969 la penna ormai affilata di George Harrison regala altri due motivi sorprendenti. In Old Brown Shoe il tema è la dualità, affrontato con una ritmica ska, infine risulta difficile trovare parole nuove per Something, non una canzone, ma La Canzone. Dopo svariate gestazioni (tipiche di George, artigiano mai soddisfatto della propria creazione), viene inclusa in Abbey Road, a dimostrazione della sua maturità riconosciuta. Diventa senza ombra di dubbio la sua top hit, con più di centocinquanta cover, da James Brown, Smokey Robinson e Ray Charles a Frank Sinatra, il quale addirittura la definisce la più bella canzone d’amore mai scritta. Tuttavia il meglio della carriera di George Harrison deve ancora arrivare.
I picchi di una carriera solista troppo sottovalutata
All Things Must Pass e il trasferimento a Friar Park
L’attività solista di George Harrison comincia a fine anni Sessanta con due esperienze sperimentali, Wonderwall Music, soundtrack del film omonimo Wonderwall ed Electronic Sound, lavoro costituito da sonorità all’avanguardia, con sintetizzatori ed elettronica in primo piano. Il frutto della sua emancipazione dai Beatles è invece All Things Must Pass (1970), sontuoso triplo LP ove vengono pubblicati molti dei brani iniziati durante le difficili sessioni di Let It Be.
Dalla malinconica e fascinosa title track, alla spiritualità di My Sweet Lord e Beware of Darkness, ai ruggiti di Wah-Wah e What Is Life, fino alle forze contrastanti di Isn’t It a Pity e Art of Dying, l’album è una successione di momenti memorabili, con Clapton e i suoi (futuri) Derek and the Dominos fra i numerosi pregiati ospiti. Sempre nel 1970, quasi a sottolineare ulteriormente il distacco dalla passata esperienza, il “ragazzo” di Liverpool lascia la vecchia abitazione per trasferirsi a Henley-on-Thames, dove acquista la tenuta di Friar Park.
Immerso nel verde e contornato da giardini, grotte e stagni, l’edificio d’epoca vittoriana in stile neogotico diviene ben presto molto più di una semplice residenza. George si dedica al giardinaggio, si rilassa, medita e trova modo di conciliare l’amore per la natura con l’attività creativa.
The Concert for Bangladesh
“Ho pensato di partecipare all’organizzazione di uno show con scopi benefici ideato dal mio amico Ravi. Potremo ricevere soldi sia con la performance che con il disco. John Lennon mi ha insegnato qual è il potere dei Beatles in questo genere di operazioni”.
Estratto della conferenza stampa di presentazione dello spettacolo, dal DVD The Concert for Bangladesh.
Al di fuori dell’attività domestica George Harrison mette tutto se stesso per una buona causa, organizzando con Ravi Shankar nell’agosto ’71 The Concert for Bangladesh, allo scopo di raccogliere fondi per i profughi del paese asiatico. Si assiste così al primo show di beneficenza della storia del rock, con star del calibro di Dylan, Leon Russell, Clapton e Ringo Starr.
Da Living in the Material World a Live in Japan, fino agli ultimi, bellissimi progetti
La difficoltà a esibirsi dal vivo si scontra con le meraviglie realizzate in studio
Gli anni Settanta e Ottanta scorrono non senza sussulti per l’ex beatle. Arte, musica e vita quotidiana si abbracciano e non si lasciano mai andare in un turbinio di eventi. Living in the Material World, Dark Horse e l’omonimo George Harrison sono dischi di gran livello e riempiono il primo decennio caratterizzato da un’acuta insofferenza a esibirsi live, il divorzio da Pattie Boyd e la nuova relazione con la futura moglie Olivia.
Il rapporto conflittuale tra spirito e materia rimane irresolubile per l’autore di Something, che si sente stritolato in una morsa dalla quale è drammaticamente difficile liberarsi, prigioniero di un irresolubile dolore. La bellezza del comporre canzoni, il piacere di suonare la chitarra lo aiutano a superare momenti difficili. Somewhere in England e soprattutto il già menzionato Cloud Nine rimettono il Nostro in carreggiata. George rivela a più riprese di sentirsi un pesce fuor d’acqua (emblematico in tal senso il brano Fish in the Sand) in questo mondo dell’apparenza, nel quale il denaro viene visto al pari di un valore, non semplicemente come un mezzo da utilizzare. Il suo desiderio sarebbe quello di lasciare tutte queste ipocrisie e vacuità “da un’altra parte”, come espresso nella malinconica Someplace Else.
Un’amicizia speciale supera qualsiasi intemperia: la fiducia riacquistata grazie al tour in Giappone. Gli ultimi anni di vita e la grande acutezza di Brainwashed
A volte, quando sembra che la negatività possa travolgere tutto arriva all’improvviso un cambiamento, torna la speranza. Il successo di Cloud Nine, l’amicizia rinsaldata con Clapton e il susseguente tour in Giappone riportano un po’ di serenità nella vita e nella carriera artistica di George Harrison che tocca un apice nel fragoroso ritorno alla RAH con ospite Gary nel 1992.
Ed eccoci tornati da dove eravamo partiti, a quell’incrocio così importante! Gli ultimi dieci anni di George sono molto intensi. Con la partecipazione al concerto per il “trentennale” di Bob Dylan, il coinvolgimento con Ringo e Paul per il progetto Anthology, la ristampa di All Things Must Pass e le session per Brainwashed, George Harrison sembra rinato e forse riesce a superare in parte la sua insicurezza e l’infelicità. Una nuova saggezza gli consente di affrontare con equilibrio la malattia (prima sconfitta e poi tornata purtroppo a battere cassa) e una spaventosa aggressione in casa propria da parte di uno squilibrato.
Un anno dopo la sua morte, avvenuta il 29 novembre 2001, viene finalmente pubblicato postumo Brainwashed, grazie al contributo del figlio Dhani e dell’amico Lynne, mentre un altro compagno di mille avventure, Clapton, organizza insieme a Olivia il Concert for George, tributo a un artista eccezionale, che è riuscito ad avvicinare la musica alla trascendenza, il pop alla sacralità, le liriche delle canzoni alla poesia universale. Sintesi perfetta di Spirito e Materia…
Chitarre e chitarristi nel mondo di George
“Nel suo parco poteva rigenerarsi e trovare pace…suonare uno dei suoi amati ukulele passeggiando tra piante e alberi oppure stare seduto a meditare o cantare mantra, ricercando nella fragile e lussureggiante bellezza della natura che lo circondava l’armonia con l’Anima universale”.
Estratto da La via mistica di George Harrison, Alberto Rezzi, Mimesis Edizioni.
Come abbiamo visto, la chitarra in ogni sua forma – dalle adorate Fender Stratocaster, Epiphone Casino e Rickenbacker 360/12 alle Gibson, alla Gretsch, fino a quel piccolo e affascinante mondo insito nell’ukulele – ha sempre avvicinato Harrison al divino, insieme al canto e al contatto con la natura.
Fender Player Series Strat MN 3TS
E parlando di chitarristi, per lui era una passione condividere insieme a loro il suo percorso. In particolare vi è un interessante incrocio con un’anima gemella, che nasce in uno dei momenti topici per la sua vita e carriera: Peter Frampton. Una nuova puntata di “Crossroads”, la serie unica e speciale che trovate solo su Planet Guitar si configura all’orizzonte!
Stay tuned
To be continued…
Contenuti correlati:
* Questo post contiene link affiliati e/o widget. Quando acquistate un prodotto tramite un nostro partner affiliato, riceviamo una piccola commissione che ci aiuta a sostenere il nostro lavoro. Non preoccupatevi, pagherete lo stesso prezzo. Grazie per il vostro sostegno!
- Susan Tedeschi: 10 canzoni inaspettate e sorprendenti con l’ammaliante fascino della regina della Telecaster - 17. Novembre 2024
- Joe Bonamassa & Warren Haynes: in missione per conto del blues - 10. Novembre 2024
- Billy Gibbons: 10 canzoni inaspettate e sorprendenti con la grinta del leader degli ZZ Top - 3. Novembre 2024