Abbiamo incontrato Maurizio Solieri all’American Road Saloon di Erba, un bellissimo locale in provincia di Como. Il grande chitarrista ci ha regalato un’intervista piena di sincerità e simpatia, che ha spaziato attraverso i momenti salienti della sua carriera, da Vasco Rossi alla Steve Rogers Band, con uno sguardo al suo passato e al futuro della chitarra e della musica in Italia.

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Planet Guitar: “Chitarra” è una parola che ha significato e vuol dire ancora tantissimo nella tua vita, ma ci sarà stato sicuramente un inizio. Sappiamo della tua prima chitarra Eko da 8.000 lire, ma il tuo primo ricordo chitarristico qual è? 

Maurizio Solieri: Stiamo parlando della fine degli anni ‘50. Mio fratello nel ‘59 andò in California: faceva il liceo classico, lo stesso che poi feci io anni dopo e andò a fare il classico anno presso una famiglia, a Palo Alto. Insomma, quando tornò io vedevo queste foto di lui su queste Chevrolet, con le pinne dietro, un sacco di ragazze in piscina eccetera. E poi il sound che girava in casa mia all’epoca era, parlando dell’Italia, Celentano, che comunque è stato uno dei primi rocker italiani, Mina, Ornella Vanoni e tanti altri. Poi Elvis Presley, Chuck Berry, tutta questa gente. Quindi uno dei primi suoni di chitarra è stato anche il primo pezzo che ho imparato a orecchio, senza neanche sapere come si accordava lo strumento. Era un brano fatto da un gruppo strumentale, forse anche la colonna sonora di un film. Non mi ricordo perfettamente quale fosse il gruppo, però insomma queste note giravano in casa. Quando appunto mia madre mi regalò, all’età di otto anni, questa chitarra da 8.000 lire, cercai di accordarla, ma non sapevo neanche bene come fare e ho cercato di fare questo pezzo. Dall’Inghilterra arrivavano poi i pezzi degli Shadows, come Apache, suonato da Hank Marvin. Avevo imparato qualche accordo e sapevo qualcosa, ma il grande colpo fu sentire Jimi Hendrix, con Hey Joe o The Wind Cries Mary, e gli Yarbirds con Jeff Beck. Gli Yarbirds avevano proprio la Sacra Trimurti: Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page, tre nomi che ancora amo fra i tanti chitarristi che ascolto. Hendrix l’ho anche visto dal vivo!

PG: Wow! Com’è stato vedere Hendrix dal vivo? [N.d.R.: era il 26 maggio del 1968, trovate ulteriori dettagli qui]

M.S.: L’ho visto al Palasport di Bologna, nel pomeriggio. Io avevo un trio nel mio paese, Concordia sulla Secchia, e già facevamo i primi pezzi come Purple Haze o Fire. Non c’erano transenne o altro, c’erano 300 persone, lo trovate raccontato anche nel libro Hendrix 1968. The italian experience. Avevamo tutti 15, 16 anni ed eravamo io e questo mio amico che si chiama Sergio Silvestri, che è stato anche l’autore di La strega di Vasco. È stato lui che mi ha presentato Vasco, perché erano compagni di collegio. Jimi Hendrix mi colpì per i livelli allucinanti, anche se sembrava anche un po’ scazzato. Ha suonato 20 minuti però, ragazzi, vedermi da vicino due stack Marshall di quelli di serie, con lui con la camicia psichedelica, tutte le collane, aveva mi ricordo i capelli con delle meches bionde. Come per i Beatles era microfonata solo la cassa, basta. E lui aveva un fuzz, credo un Dallas Arbiter, un wah e basta. Con il cavo a molla che fra l’altro ultimamente ho ritrovato, ce l’avevo anch’io.

© Bitetti

PG: Ti chiedo ancora di fare un viaggio nella memoria e tornare a un viaggio in treno e al primo incontro con una persona che sicuramente è stata importante per la tua carriera: Vasco Rossi. Tu racconti che durante questo viaggio in treno, che da Modena vi portava a Milano, c’era una chitarra che era di Vasco ed era un’Ovation, giusto?

M.S.: Quella è stata la prima chitarra elettroacustica, nata negli Stati Uniti naturalmente. Io l’avevo vista solo imbracciata da Franco Mussida della PFM, dai New Trolls, da tutti questi gruppi che andavo a vedere, perché stiamo parlando del fine degli anni ‘60, inizio anni 70. Io ero tipo Fantozzi, che puntavo questa custodia meravigliosa. Dico a Vasco ‘Ma hai un Ovation tu?’ ‘Sì sì, ho l’Ovation, perché?’ ‘Ma me la faresti provare?’ ‘Sì sì’. Me l’ha data e io ero già qualche anno che suonavo. Quindi ho un po’ suonato o arpeggiato, ho fatto qualche stacchetto o qualche cosa così. Lui fece ‘Ma la suoni proprio bene la chitarra!’

PG: Vasco in realtà l’avevi conosciuto in radio…

M.S.: Esatto, a Punto Radio. Io ho finito il servizio militare e sono entrato, grazie sempre a Sergio. All’epoca ero molto appassionato di jazz e quindi il primo programma che feci a Punto Radio fu questo Jazz Time, dove facevo il disk jockey jazz. E poi da lì abbiamo incominciato a fare le primissime cose: la radio organizzava delle feste nelle balere dell’Emilia Romagna, balere da 3-4 mila persone. E c’erano i Puntautori: c’era Vasco che suonava con Gaetano Curreri e la sua band si chiamava Le Cinque Lire, io che suonavo con un altro puntautore che era Sergio Silvestri, e poi c’era Riccardo Bellei. All’epoca la chitarra che avevo credo fosse una Gretsch Chet Atkins Tennessean, come quella di George Harrison, che poi fu sostituita da una Fender Stratocaster. Usai anche una SG Special di proprietà di Ricky Portera, che già era un amico da quando avevamo 15 anni e siamo ancora amicissimissimi.

PG: “Amicizia” è una bella parola. È notissimo il fatto che, durante la tua carriera con Vasco, ci siano stati un po’ di tira e molla, cose che succedono durante l’amicizia…

M.S.: Allora la prima volta fu quando, con la Steve Rogers Band, avemmo successo. Noi non sapevamo che parte prendere, perché Massimo Riva voleva fare il cantante solista e Guido Elmi, che era anche il nostro produttore, gli fece firmare un contratto in cui per 4 anni non poteva fare delle cose del solo. Però, se fosse stato per Riva, avrebbe fatto il cantante solista, perché lui voleva essere il Vasco numero 2. Io avrei continuato, anche perché all’epoca Vasco faceva un tour e poi un anno stava fermo e riprendeva l’anno dopo. Quindi avevamo anche il tempo di fare i nostri tour, perché mai lasciarlo? Poi avevo già cominciato a scrivere pezzi per lui e anche Massimo… Insomma, fu Guido Elmi a litigare con Vasco e fu cacciato dallo studio. Guido all’epoca poi ebbe un intervento all’intestino importante e andammo a trovarlo in ospedale. Ci impietosimmo un po’ da questa situazione, perché praticamente gli eravamo rimasti solo noi, e alla fine mi sono fatto convincere dagli altri, anche se non ero convinto a mollare Vasco. Lui continuava a telefonarmi, io avevo già registrato la prima parte di Liberi Liberi e dovevo fare gli ultimi due o tre pezzi. Io gli dissi ‘Guarda Vasco, mi dispiace un sacco ma stiamo facendo il disco con la Steve mi scoccia fare uno e l’altro’.

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© Roberto Villani

PG: C’è poi quel famoso post di Vasco su Facebook del 2012 che ha fatto un po’ storia, forse anche più del dovuto… 

M.S.: La gente non vede l’ora di parlare e anche lì è stato un fulmine a ciel sereno. Io ero a Trieste perché ero stato invitato da Virgin Radio. C’era il concerto di Bruce Springsteen e io, Ringo e altra gente di altre radio dovevamo andare nelle scuole a parlare di musica, del rock. Insomma, il giorno dopo mi chiama Beppe Leoncini, che era il batterista della Steve, e mi dice che Vasco aveva scritto quella cosa. Sono andato a leggere e sono rimasto a bocca aperta. Aveva sentito una mia intervista, che avevo rilasciato telefonicamente mentre stavo cambiando le corde alla chitarra giù in studio da me. Mi hanno chiesto com’era il nostro rapporto e io dissi che ognuno si faceva un po’ gli affari suoi. Ho detto la verità, ma non ho offeso nessuno. ‘Ci vediamo sul palco, facciamo dei grandi concerti e basta, tutto lì’. Mai che l’avessi detto.

PG: Però poi sappiamo che avete fatto pace e hai suonato in uno degli eventi più grandi per la carriera di Vasco. Addirittura quello è stato uno dei concerti con maggior numero di spettatori paganti della storia della musica italiana, Modena Park

M.S.: Io non avevo litigato con nessuno, ha fatto tutto lui. Modena Park non mi è piaciuto, perché sinceramente avrei dovuto fare certe cose. Almeno, Guido mi aveva detto che avremmo fatto certe cose, e alla fine mi sono trovato da solo su un palco, 50 metri lontano dagli altri. È stata un po’ una vendetta secondo me, per cui ho fatto questa cosa malvolentieri che non rifarei mai più in vita mia, assolutamente. La verità è questa. Però con Vasco siamo comunque ancora amici.

PG: Ti è piaciuta la docuserie di Netflix Vasco Rossi: Il Supervissuto?

M.S.: Mi è piaciuta molto. Anche le cose inedite. Perché poi io a casa mia ho un armadio pieno di VHS e quando ho rivisto noi con la prima Steve Rogers Band, con Roberto Casini e Andrea Righi, nelle baleracce dell’Emilia Romagna… Avevamo un suono! Altro che Sex Pistols, mi sono gasato da matti. Il giorno dopo ho chiamato Vasco. Prima gli ho lasciato un messaggio su WhatsApp, gli ho detto ‘Guarda non voglio né soldi, né voglio rientrare nella band, né collaborare eccetera, ti ho solo chiamato per dirti che mi sei piaciuto un sacco, sei stato brillantissimo, è stato un ritornare ai vecchi tempi e ti ho ritrovato alla grande, come eri una volta. Quindi mi piacerebbe anche vederti, così, per chiacchierare. Ripeto non voglio né soldi, né collaborazioni, né suonare, eccetera’. Il giorno dopo mi ha chiamato subito! Ci siamo visti e abbiamo passato un pomeriggio ridendo e scherzando, come vecchi amici, poi siamo andati al bar per il caffè. Perché io non ce l’ho con nessuno, soprattutto con le persone con cui ho trascorso decenni e decenni e poi questa cosa l’abbiamo fatta insieme. Già dalla radio: il rock, Silvestri, Riva, tutti quanti, abbiamo buttato giù questo progetto. 

PG: Tu, oltre ad essere un grande chitarrista, hai scritto canzoni. Essere songwriter non è così semplice, essere chitarrista bravo non è così semplice e mettere assieme le due cose è molto difficile. Tra tutte le canzoni che hai scritto, scegline una e raccontacela.

M.S.: Ti posso citare Lo Show. Mi piacciono tutte le canzoni che ho scritto, però Lo Show è nata in un momento fra il ‘91 e il ‘92. In quel periodo lì avevo fatto questo arpeggio che ricordava un po’ Sting, basato su Mi, sulle rivolte di Mi e la melodia c’era, però sentivo che ci voleva qualcosa, doveva incazzarsi il pezzo. Allora andai al NAMM a Los Angeles con questo mio amico di Bologna che si chiama Andrea Pennesi. Stando a Los Angeles e frequentando i locali alla sera, nei club di Anaheim, c’erano le jam session con Eddie Van Halen, Steve Vai, Joe Satriani, eccetera. Poi andavamo naturalmente al Whisky a Go Go e tutti i vari locali. Insomma, respirando quest’aria meravigliosa, già in aereo ho deciso che gli accordi sarebbero rimasti gli stessi più o meno, però ho pensato ai Metallica [canticchia il brano, N.d.R.]. Arrivato a casa ho fatto un demo, l’ho portato a Vasco che si è entusiasmato da matti e subito ha fatto il testo.

PG: C’è invece un brano che, quando lo hai ascoltato per la prima volta, hai pensato ‘questo pezzo avrei voluto scriverlo io’?

M.S.: Uno è For Your Love degli Yardbirds, ma tanti altri. All Along The Watchtower, che poi è un pezzo di Bob Dylan, però arrangiato in quel modo lì Hendrix l’ha fatto suo. Tutte le volte che l’ascolti è come se la ascoltassi per la prima volta.

PG: Tra i tanti chitarristi che hanno collaborato con Vasco, oltre al tuo nome mi viene in mente quello di Michael Landau, di Stef Burns o, più recentemente quello di Vince Pastano. Che ne pensi di loro?

M.S.: Stef è un caro amico, una cara persona, un grandissimo musicista. Lui è veramente preparatissimo su tutti i generi, ti suona qualsiasi cosa e poi è una persona umanamente deliziosa. Abbiamo suonato insieme 20 anni per cui sicuramente il primo nome che faccio è lui. Andrea Braido è molto bravo: una volta all’anno facciamo un concerto, mi chiama questo mio amico di Forte dei Marmi, e chiama sempre anche Braido, che è un bravissimo chitarrista. Forse se pensasse di più alle melodie, invece di buttarsi sempre su questi fraseggi velocissimi… Cioè falli, però come Steve Lukather, no? Bisogna fare dei riff, delle melodie, poi se vuoi fare la scala e la sai fare… Io qualcosa facevo, nei primi anni ‘90, chiaramente invecchiando le mani non sono più esattamente quelle di prima, per cui io adesso soprattutto sto sulle melodie, molto sul blues perché comunque sono cresciuto col blues. Vince Pastano l’ho visto due volte in vita mia: è bravissimo dal punto di vista tecnico, però non ti so dire come scriva e cosa faccia melodicamente. Ha una band, ho sentito delle cose su YouTube. Dal vivo, beh, niente male, un buon cantante, sicuramente un buon musicista, però lo conosco talmente poco che non ti so dire.

© Maurizio Solieri

PG: Hai avuto modo di suonare anche con Landau, l’hai incontrato magari in studio?

M.S.: L’ho visto dal vivo, credo che fosse cinque, sei anni fa. Per dirti com’è l’italia: a San Lazzaro, che è un paese a tre chilometri da dove abito io, c’è questo posto dove vanno i vecchietti, ci sono le orchestre di liscio che suonano in questo teatrino che si chiama Paradiso. In questo posto hanno suonato Michael Landau, Steve Gadd alla batteria e poi altri musicisti del giro fusion americano molto famosi. Landau è un chitarrista che mi piace molto, anche come gioca col volume, come Jeff Beck insomma. Lui si può attaccare a una stufa. È arrivato lì con un Fenderino trovato sul posto. La cosa che mi fa arrabbiare con questi grandi musicisti è che il biglietto costava 20 euro. Ormai vai a vedere chiunque in Italia e spendi, 100, 150 euro e la gente ci va. Ma voi siete impazziti? E lì un biglietto costava 20 euro, con dei musicisti della madonna. Steve Gadd lo vidi anche con Pino Daniele: grandi concerti dell’Italia musicale anni ‘70, primi anni ‘80. Pino Daniele suonava anche con Wayne Shorter, ex Miles Davis e Weather Report. I Weather Report io e il Gallo andammo a vederli due volte. 

PG: La tua chitarra signature è un modello del marchio Blade, ed è una simil Stratocaster con due single coil Texas Special e un humbucker Seymour Duncan. Ti piace questa combinazione HSS o sogni un’altra chitarra signature?

M.S.: Quella chitarra lì avrebbe dovuto essere in un modo, perché avevo parlato con una persona che poi andò a lavorare per Gibson, per cui doveva essere una cosa molto più particolare, con dei legni scelti da me. Poi hanno preso delle chitarre già esistenti e hanno copiato un po’ la mia Frankie quando aveva il battipenna d’ottone tutto scolpito. Non va male, anche perché c’era il modello standard e il modello relic, “invecchiato” dal liutaio Fabrizio Paoletti. Ce l’ho a casa, suona bene, l’ho tirata fuori recentemente, però non è che ci tenga poi tanto. Poi ho un’altra chitarra realizzata da Handyman, che mi porterò giù a Napoli per un bellissimo evento di cui svelerò tutti i dettagli quando potrò. È molto bella, tutta scolpita.

PG: Hai citato spesso in questa intervista tuo figlio Eric, che hai chiamato come uno dei tuoi più grandi eroi della chitarra. Suonare con tuo figlio che sensazioni ti dà?

M.S.: Mi dà una grande sensazione, perchè è uno dei migliori batteristi con cui ho suonato, dopo gli americani con cui ho suonato per anni. Diciannovenne e fa paura! Soprattutto, ha imparato dai discorsi che ha sentito, ad esempio tra me e Mimmo Camporeale al telefono. Grazie anche a Guido Elmi che ci ha fatto capire che si suona in questo modo, col groove giusto, appoggiato, cosa che adesso non fa più nessuno. Mi capita di suonare qualche volta con qualche tribute band di amici; chiaramente non lo fanno di professione, quindi i batteristi corrono, perché prendono le velocità da internet, che già sono sbagliate, magari di pezzi fatti 40 anni fa. Se voi andate a vedere come suonano adesso i Rolling Stones, David Gilmour, tutti quanti, suonano tutti più appoggiati. Perché comunque i pezzi devono intanto far muovere il piedino, devono essere ballabili. E questo, che noi abbiamo imparato negli anni col professionismo, mio figlio l’ha imparato perfettamente, infatti con lui non c’è mai problema.

© Roberto Villani

PG: Avendo in casa un musicista giovane come tuo figlio Eric, come vedi il futuro della musica italiana e della chitarra? 

M.S.: Io incontro un sacco di giovani che suonano bene, che purtroppo non vengono considerati dai gestori dei locali, che continuano a chiamare solo degli imitatori. Forse perché costano poco, forse è quello il problema. Io credo che sia anche quello, oppure chiamano solo degli stranieri. Per la prima volta in tanti anni sto seguendo X Factor, che mi piace molto con della gente brava. Mio figlio Eric dice, quando sente parlare Manuel Agnelli, che lui dice le mie stesse cose.

Certo, perché siamo dei boomers! Vedo che stanno spingendo molto le band, finalmente! I nostri discografici dell’epoca, fino a metà anni ‘90, erano persone che se c’era del talento ti facevano fare un disco, due dischi, tre dischi, quattro dischi. Vi rendete conto che sono anni che non esiste più un Vasco Rossi, un Lucio Dalla un De Gregori, un Pino Daniele, eccetera, perché tutti ci hanno messo anni! Adesso buttano fuori queste ragazzotte intonate dall’autotune, ma non puoi. E poi basta con le tribute band di qualsiasi cantante o gruppo! Non ne possiamo più di vedere i finti Queen, i finti Rolling Stone, i finti Pink Floyd, con la gente che va là a farsi solo i selfie. Anche se ci sono dei bravi musicisti in Italia che sanno scrivere e sanno suonare, purtroppo dovranno o cambiare lavoro oppure fare la tribute band. Devono essere i gestori dei locali che devono chiamare quelli che scrivono le proprie canzoni. Vengono anche gratis, quindi non dovete spendere neanche dei soldi! 

A fine intervista ci raggiunge anche Eric, che confermiamo essere un batterista veramente bravo e competente. Maurizio si è confermato essere non solo un grande chitarrista, ma anche una persona molto disponibile e simpatica. Non possiamo far altro che consigliarvi la lettura del suo libro, Questa sera rock’n’roll, e l’ascolto del suo ultimo lavoro in studio, Resurrection. E chissà, magari Planet Guitar avrà l’occasione di incontrarlo ancora!

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