La musica non è solo intrattenimento, ma una forza capace di costruire memoria e comunità. Provate a pensare alla potenza evocativa delle note di Pete Townshend e Joe Walsh, alle loro magie chitarristiche negli Who e negli Eagles, alla loro pregiata carriera solistica. Le canzoni, i riff, i licks di questi due straordinari personaggi hanno emozionato intere generazioni e le hanno unite nel segno dell’amicizia, della condivisione di una passione. Anche Joe e Pete sono rimasti molto legati, durante la loro esistenza ne hanno vissute di cotte e di crude ma sono ancora qui, insieme, a regalarci un po’ di bellezza, un briciolo d’arte in questa società sempre più liquida e complicata.
From the cradle to the grave: uniti per sempre da musica e chitarre
Un’amicizia nata a un passo dal palco
Frustrazioni, sogni e…chitarre. Emozioni, bagordi e…chitarre. Sesso, droga e…chitarre. Sì, c’era anche tanto rock and roll, ma alla base di tutto per Pete Townshend e Joe Walsh vi erano (e vi sono tuttora!) le sei corde, fonte di passione e desiderio da cui scaturiva tutto il resto. Una storia di chitarre donate, scambiate, strimpellate a quattro mani a un passo dal palco, descrive bene quanto sia profonda l’amicizia tra due personaggi istrionici e fuori dal comune, capaci di rendere visibile l’invisibile con la maestria delle dita che scorrono velocemente sul manico e pizzicano con sensibilità unica le corde.
Siamo a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, gli Who sono in tournée per Tommy, forse senza nemmeno rendersi conto di quanto questo doppio album abbia spalancato nuovi orizzonti alla commistione di generi. La James Gang apre le loro date. Walsh e Townshend condividono gli attimi prima di salire sul palcoscenico e con il passare del tempo e dei concerti si trovano in sintonia. Entrambi pregiati chitarristi, navigano sulla stessa rotta, con il primo per niente intimidito dal carisma incontrastato dell’altro.
Gli incoraggiamenti reciproci e un’affinità elettiva così forte da cambiare il destino
Corso rapido su come gestirsi in un power trio e suonare con il giusto atteggiamento. A quell’epoca non esistevano Google, YouTube e i tutorial, non si viveva tutto alla velocità del suono, c’era più tempo per dialogare e confrontarsi se si aveva la fortuna, però, di trovarsi nello stesso posto alla stessa ora. Tuttavia, tralasciando adesso i pro e i contro di un’era “statica” che ha lasciato il posto a una “liquida”, è comunque ben chiaro quanto Pete abbia influito su Joe, per poi riceverne a sua volta beneficio.
Townshend insegna a Walsh come interfacciarsi correttamente in un contesto rock. Il frontman della JG impara il concetto di lead rhythm, ove si suona la chitarra ritmica e quella solista allo stesso tempo e si va avanti e indietro, coprendo tutti gli spazi.
Entrambi soffrono delle stesse frustrazioni, dovendo convivere con le forti personalità dei membri delle rispettive formazioni, e questo scambio di opinioni reciproco e gli incoraggiamenti fanno bene anche a Pete, sempre indeciso, a metà strada tra l’irraggiungibile Hendrix e la ricerca di un sound più melodico, che esprima meglio le innate doti di songwriter.
Inseparabili, fino ai giorni nostri
“Joe Walsh è un musicista fluido e intelligente. Non ce ne sono molti così in giro”. Estratto da Rolling Stone#181, febbraio 1975.
Townshend con poche ma buone parole sintetizza il suo pensiero nei confronti di Walsh, il quale rimane sorpreso e molto colpito dall’apprezzamento del compagno di mille avventure. “Sono lusingato oltre ogni dire dalle sue lodi, perché fino a quando non me l’ha detto lui non pensavo di essere così bravo. Io e Pete andiamo molto d’accordo, lo stimo e lo vedo molto vicino alla mia idea di musica”, afferma il pioniere del Talk box sempre per Rolling Stone.
E non solo nel secolo passato, il duo anglo americano si è frequentato pure in questi ultimi decenni. Memorabile è lo show per il Teenage Cancer Benefit del 14 maggio 2015, in cui vengono celebrati gli Who al Rosemont Theatre di Chicago con special guests del calibro di Eddie Vedder, Joan Jett, e, soprattutto, Joe Walsh!
Il canto e il playing sostenuto di The Kids are Alright, il suo virtuosismo in una tonitruante Eminence Front e lo sbalorditivo crescendo di Summertime Blues fanno luccicare gli occhi all’autore di I Can’t Explain, che per questo magico evento rispolvera la Rickenbacker dopo molti anni. E a proposito di chitarre, come non spendere due parole per una sei corde molto importante nella storia di Joe, Pete e della musica in generale?
Dalla Gretsch all’ARP 2600: i regali che cambiano le carriere!
Riavvolgiamo per un attimo il nastro e torniamo al 1970. Joe fa un regalo molto speciale a Pete: una Gretsch 6120 Chet Atkins del 1959, un raro amplificatore Fender Bandmaster sempre di quell’anno, dei cavi e un pedale del volume particolare. Così assemblato, l’equipaggiamento produce un sound meraviglioso, unico. Townshend lo utilizza per gran parte degli album Who’s Next (1971), Quadrophenia (1973) e per altre registrazioni classiche degli Who, sviluppando un nuovo suono di grande definizione, carico di feedback. Chissà come sarebbero state Baba O’ Riley e Won’t Get Fooled Again senza tale dono! Inoltre quella Gretsch diventa sua compagna d’avventura per eventi speciali quali il Rainbow Concert di Eric Clapton e per alcuni lavori solisti in studio.
Gretsch G6120T-59VS Chet Atkins
Così il nostro caro Walsh, oltre ad aver cambiato la vita a Jimmy Page con l’omaggio di una sua Les Paul, chitarra in quel periodo introvabile dall’altra parte dell’Atlantico, lascia un segno perenne anche nell’esistenza di Townshend.
“Quella rumorosissima Gretsch dall’orribile colore arancione in verità è la migliore sei corde che abbia mai avuto”, dichiara a Guitar Player nel ’72, felice della pienezza del suo sound, ora dal tono “grasso”, come quello dall’amico Joe. Tuttavia anche il generoso autore di Funky Mountain Way ottiene il suo tornaconto. Pete si sdebita con un ARP 2600, che trasforma il compare in un fanatico dei sintetizzatori. Inoltre, i consigli ricevuti per migliorare la melodia sfociano impetuosi nella genialità dei ricamati assoli di Hotel California e Life in the Fast Lane. La fiducia riposta in lui diviene sprone per comporre l’iconica Life’s Been Good, canzone dal potere taumaturgico già dal titolo.
Walsh possiede una brillantezza innata, tuttavia non c’è dubbio che il suo approccio alla musica sia stato arricchito da ciò che Townshend gli ha portato in tavola. Un bravo apparecchiatore, ma non solo, il poliedrico frontman degli Who, diventato leggendario come chitarrista, compositore, cantante, produttore, attore e sceneggiatore. Un uomo tanto dotato quanto indecifrabile, di cui ora andiamo ad analizzare i tratti salienti della carriera.
Gli Who e la carriera solista: breve cronistoria di un mito del rock
Da Bill Haley agli Shadows
Quando Pete Townshend nasce a Chiswick, West London, il 19 maggio 1945, nei suoi cromosomi vibrano già le sette note.
Il padre è un professionista del sassofono, la madre una cantante. Entrambi hanno però un carattere instabile e il bambino soffre per le loro continue liti, le separazioni e i ricongiungimenti. La musica, nella fattispecie il rock di Bill Haley, è la sua ancora di salvezza insieme alla lettura di romanzi d’avventura.
Il giovane Pete essenzialmente è un solitario, bullizzato dai compagni di scuola per il suo grosso naso, salvato e redento da una chitarra regalatagli dalla nonna a undici anni.
Con Lonnie Donegan nel cuore forma il primo gruppo insieme a John Entwistle, esplora anche altri generi quali il jazz e l’r&b, e, ancora adolescente, si impratichisce ore e ore sulla sei corde.
La prima grande scelta avviene nel 1961, quando decide di studiare disegno grafico al college e si unisce, tramite Entwistle, ai Detours di Roger Daltrey. I ragazzi suonano principalmente cover degli Shadows e Cliff Richards, tuttavia in un paio d’anni arrivano le prime composizioni di Townshend e il cambio del nome in The Who. Scorre il 1964 e il destino del giovane, che decide di abbandonare la scuola per dedicarsi a tempo pieno alla sua passione, sta per cambiare per sempre.
L’inizio del galoppo con gli Who
Alcune modifiche di formazione, con l’arrivo dell’istrionico Keith Moon alla batteria, caratterizzano i primi passi della band, presto destinata ad aggiungere una caratteristica fondamentale alle proprie performance. Nel giugno 1964, infatti, durante un’esibizione alla Railway Tavern, Pete rompe accidentalmente la parte superiore della sua chitarra sul soffitto basso e, come posseduto, procede alla distruzione dell’intero strumento.
Questo rito diviene una parte regolare degli spettacoli dal vivo, aggiungendo fuoco e fiamme alle già incandescenti performance di Daltrey e soci. I Can’t Explain e Anyway, Anyhow, Anywhere sono i brani che iniziano, nella primavera del 1965, a farli conoscere negli USA e in UK, ma manca ancora il singolo in grado di spalancare le porte del successo. Sarà questione di pochi mesi…
La veloce ascesa
Scorre velocemente l’autunno, arrivano i primi freddi ad annunciare l’inverno, ma a scaldare l’anima di mods e rockers ci pensa una hit immortale. My Generation è una canzone semplicemente perfetta, una di quelle che fra cent’anni continueranno a farci battere il cuore all’impazzata, la ciliegina sulla torta ben farcita dell’omonimo album grazie a The Kids Are Alright e A Legal Matter, dimostrazione dell’evoluzione e della leadership a livello di songwriting di Townshend.
I successivi, mirabolanti, A Quick One (1966) e The Who Sell Out (1967) ottengono un forte riscontro commerciale e di critica, certificando la penna affilata di un artista che non si è mai accontentato di un livello sufficiente. Dai primi tempi in cui suonava la migliore musica r&b della scena rock britannica alla realizzazione di questi brani epici, l’autore di I Can See for Miles ha visto la scrittura sia come una necessità sia come un’arte, spingendo costantemente in avanti il suo stato d’animo.
Tommy, il capolavoro di Townshend
Proprio in queste condizioni di massima ispirazione arriva il masterpiece, il lavoro più rappresentativo del quartetto, Tommy. Gli Who, sinonimo di mod pop e rock psichedelico con attitudini garage, aggiungono così un’altra freccia al proprio arco con un meraviglioso concept album.
Parafrasando Samuel Beckett: soffrire, soffrire di nuovo, soffrire meglio. Questa è una delle cose che la musica ci consente di fare: soffrire e guarire contemporaneamente. Gli incubi claustrofobici di Pete Townshend, le sue frustrazioni, le molestie subite in gioventù si materializzano nella figura di Tommy, nella sua disperata avventura in un mondo così inumano. La prima opera rock, divenuta pure un film pieno di acclamati protagonisti dello showbiz del periodo, apre la strada alla meno riuscita seconda, Quadrophenia, dopo la parentesi del bellissimo Who’s Next e un paio di canzoni indimenticabili quali The Seeker e Love, Reign o’er Me.
Gli anni difficili, il periodo solista, l’arresto e la serenità ritrovata
Immortali
Gli Who sono al culmine del successo (con un’intensa e ben documentata attività dal vivo, da Woodstock a Live at Leeds per poi arrivare al Live at the Isle of Wight Festival) e degli eccessi, in questi ultimi capitanati dall’irriducibile Keith Moon. Qualcosa, però, nella macchina ben oliata si è rotto e Who Are You (1978) pur avendo successo fa proseguire la parabola discendente di The Who by Numbers.
L’improvvisa morte di Moon avvicina paurosamente alla fine il progetto, che sopravvive grazie a compilation e pubblicazioni live, oltre a un disco non memorabile, Face Dances, e un altro solo in parte ispirato, It’s Hard, entrambi con Kenney Jones dietro alle pelli. Il sodalizio risorge più volte da metà anni Ottanta per Live Aid sino ai giorni nostri, perdendo però all’inizio del nuovo secolo anche Entwistle. Endless Wire e, semplicemente, Who, sono i due ultimi ruggiti discografici di un leone ferito mai domo, tuttora brillante on stage.
“Lasciate che il mio amore vi apra le porte”
Jimi Hendrix, i Rolling Stones e i Beatles sono le pietre miliari, i fari illuminanti anche del lavoro solistico di Townshend, spesso troppo dimenticato a favore delle sue gesta negli Who. Accanto alle influenze luccica una forte ispirazione, brilla un’innata originalità fin dall’esordio Who Came First (1972), in parte figlio del progetto abortito Lifehouse. Dopo il bellissimo Rough Mix (1977) in duo con il mai troppo compianto Ronnie Lane, la forte spiritualità di Pete riemerge in Empty Glass (1980), un disco sofferto e tormentato. Il soggetto sono i problemi vissuti in quel periodo: l’alcolismo, la dipendenza dall’eroina e il dolore, non ancora sopito, per la morte di Keith Moon.
In quel periodo, Townshend si sente completamente perso, in balia dei propri fantasmi interiori, incapace di vivere la pienezza della vita e perennemente strafatto. Fin dal 1968, è un seguace degli insegnamenti del guru indiano Baba; tuttavia, si rende conto che quella spiritualità stava completamente sparendo dal suo cuore. In tal senso il brano più rappresentativo (e di grande successo, soprattutto negli States) è Let My Love Open the Door: l’affermazione, hic et nunc, che l’amore rende liberi e salva la vita. Non solo l’amore fra uomo e donna, ma quello più universale che porta a tendere verso l’assoluto.
Gli ultimi squilli della carriera solista
Gli ultimi quarant’anni “solisti” di Pete sono ricchi di alti e bassi. Si parte forte con il concept album White City: a Novel, per rallentare e finire senza benzina in The Iron Man: The Musical (1989) fino al pretenzioso Psychoderelict (1993). Seguono svariati progetti di recupero di vecchie canzoni, compilation e uscite live che tengono alto il nome di colui che con il suo stile aggressivo sa agitarsi su una chitarra come nessun altro.
Il 2003 segna un momento tragico con l’inopinato arresto per pedopornografia, accusa infamante (in verità dimostratasi poi infondata) proprio per chi durante l’infanzia subì abusi, mentre il 2023 vede uscire lo struggente Can’t Outrun the Truth, primo singolo (i cui proventi vengono interamente devoluti alla Teenage Cancer Trust) dopo più di cinque lustri. “Non posso sfuggire alla verità” canta con trasporto Pete in questo brano scritto in piena era pandemica: un grido di dolore con la speranza sempre viva, pur se ridotta a un lumicino. Il lamento sincero di un sopravvissuto che non si è arreso mai.
Le collaborazioni, gli incroci leggendari e le chitarre del leader degli Who
Da Clapton a Gilmour
A quasi ottant’anni suonati, sopravvissuto fortunosamente a un cancro, diagnosticato in tempo, Pete Townshend gode di buona salute e quando si sente particolarmente ispirato non disdegna nuove collaborazioni, come la sua recentissima partecipazione al disco del duo The Bookshop Band.
Fra le partnership degli anni passati sono sicuramente da ricordare quelle con David Bowie (Because You’re Young, Slow Burn), i Rolling Stones (Slave), Elton John (Ball and Chain, Town of Plenty) e Paul McCartney (Angry, Move Over Busker).
Memorabili sono gli incroci tra guitar hero, da Ronnie Wood e Jeff Beck fino a Noel Gallagher. Occorre sottolineare, infine, la profonda amicizia con David Gilmour, con il quale vi è sempre stato un vivace interscambio nei rispettivi dischi in studio e sul palco, e quella con Eric Clapton. L’attenzione dedicata da Pete a Slowhand supera la sfera musicale e tocca quella privata. Senza il suo generoso contributo probabilmente Eric non si sarebbe mai ripreso dall’abisso delle droghe; fondamentale il Rainbow Concert del 1973, organizzato per farlo tornare nello showbiz. Un rapporto sempre fraterno e rinsaldatosi nel tempo grazie al comune, smisurato amore per il blues.
Un polistrumentista “strapazzachitarre”
Sebbene sia conosciuto principalmente come chitarrista, Townshend suona da autodidatta anche tastiere, banjo, fisarmonica, armonica, ukulele, mandolino, violino, sintetizzatore, basso e batteria. Ma torniamo al suo strumento principale. Nel corso della carriera il leader degli Who ha utilizzato parecchi modelli di Rickenbacker e numerose Gibson, in particolare la storica SG Special, prima di passare alla Les Paul Deluxe e alla Gretsch gentilmente regalata da Walsh. Altri modelli iconici sono la Fender Stratocaster, in uso dalla fine degli anni Ottanta, la Telecaster e, parlando di acustiche, la 1968 Gibson J-200, le dodici corde Harmony Sovereign H1270 e Guild F-512.
Fender Clapton Strat Signature TR
E a proposito di Fender Stratocaster, una delle ultime passioni di Pete, c’è un musicista a tutto tondo, pregiato session man e parte integrante di alcuni progetti di alto lignaggio, che ha incrociato la strada con Pete: Phil Palmer.
“Crossroads”, la serie speciale e unica di Planet Guitar, si accinge a vivere un’altra entusiasmante puntata, con l’Italia nel cuore!
Stay tuned
To be continued…
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