Ogniqualvolta Slash abbia incontrato un problema, la sua soluzione è stata rituffarsi nella musica da cui ha ricevuto ispirazione per tutta la carriera, il blues. E destino vuole che l’estroso solista, compositore, nonché chitarrista dei Guns N’ Roses, dopo aver suonato quel genere così primordiale per “rigenerarsi” nei momenti topici della propria esistenza, incontri finalmente il suo idolo. B.B. King e Slash rappresentano la sintesi perfetta del vero concetto insito all’interno della musica, quella vera, senza confini e senza tempo, ove conta solo il suono di una nota (di chitarra) emesso al posto giusto, nel momento giusto, per creare un’emozione incancellabile.
Emozione e commozione alla Royal Albert Hall
Il Professore del blues incontra i suoi alunni
Live at the Royal Albert Hall è un bellissimo disco pubblicato anche in versione DVD nel 2012. Al suo interno l’ascoltatore ripercorre il concerto tenutosi il 28 giugno 2011 nel mitico teatro di Londra. B.B. King, sia da solista sia accompagnato dai suoi special guests, esegue in una serata davvero magica i suoi grandi capolavori, quali The Thrill Is Gone e Guess Who. La chicca dello show è la riproposizione di un traditional indimenticabile, When the Saints Go Marching In, utilizzando un arrangiamento dalle sonorità tipiche del chitarrista del Mississippi. Ronnie Wood, Mick Hucknall, gli inseparabili Derek Trucks e Susan Tedeschi fanno parte del cast, arricchito da un rocker riccioluto che spesso nella carriera ha tributato sentiti omaggi al suo mentore, anche se apparentemente lontano per attitudini e approccio al suo background: Slash…
Slash entra in scena, due chitarre e un cappello a cilindro a un passo dal cielo
Dopo il set iniziale del padrone di casa, arriva la lunga jam insieme a tutti gli “invitati” per questa celebrazione della musica. Un momento epico, che scalda il cuore del pubblico e incomincia a creare una straordinaria alchimia tra gli artisti sul palco. The Thrill Is Gone è un altro frangente di grande empatia fra tutti i personaggi coinvolti, e in particolar modo per i “nostri” Slash e B.B., con il secondo che si fa mettere in testa il celebre cappello a cilindro del primo. Sono azioni divertenti, inconsuete, ma pure di grande valore simbolico.
Entrando nella psicologia dei due chitarristi non è lontano dalla verità affermare quanto sia un gesto di riconoscimento forte da parte del Maestro nei confronti dell’alunno. Slash è rispettoso, onorato di trovarsi di fronte a uno dei più grandi e regala emozioni indimenticabili con i suoi sorrisi, i suoi assoli. La sua performance in Guess Who è difficile da descrivere solo con le parole. Fa lacrimare la Gibson Les Paul come se non ci fosse un domani e dipinge note così espressive da sembrare un novello Pinturicchio.
Una creatività sempre in crescita, che ora accorpa con maggior sicurezza tutte le ispirazioni e le radici della sua musica, dal rock all’heavy metal fino all’amato blues, un piacevole ritorno alle origini. E, come vedremo, sono proprio tanti i punti in comune della “strana coppia”, fulgido esempio di quanto l’universo delle sette note sia un luogo magico, dove lo spazio e il tempo non sono più determinanti.
Tutto è possibile nel Regno delle sei corde, lo dimostra l’incrocio di due chitarre che viaggiano in parallelo. Una sognante, elegante e speranzosa pur dopo tanti anni di sofferenza. L’altra violenta, disperata, urlante e infine rasserenata, dopo tanta distruzione vissuta accanto a sé.
Due artisti geniali salvati dalla musica: le radici in comune tra B.B. e Slash
“Qualcuno probabilmente penserà: perché suonare il blues? Ne ho già molti ogni giorno di momenti tristi. Per me il blues è qualsiasi cosa abbia a che fare con la guarigione, è una cura; la musica può essere divertente e allo stesso tempo malinconica, nostalgica, ovvero blueseggiante. Si tratta, con semplicità, di un tipo di musica che chiamiamo blues e fa star bene…”.
Quante verità in queste frasi di B.B. King, estrapolate dal suo famoso concerto a San Quentin del 1990, davanti a una platea di carcerati. Parole scelte non a caso e dette in un luogo colmo di disgraziati alla ricerca di riscatto, di una ragione per continuare a vivere. Tutta la musica, e soprattutto il blues, ha un potere taumaturgico, può portare alla salvezza, è un rifugio per l’anima.
Slash fin da bambino si è legato ai giganti del genere, da Willie Dixon e Muddy Waters e Albert King, per poi seguire anche i prosecutori Page, Clapton e Beck, fino a toccare i precursori e gli ideatori dell’heavy metal. Ovviamente con anche il Re del Blues, il Blue Boy nel cuore.
Robert Johnson, i vari rappresentanti del Delta blues e T-Bone Walker sono influenze comuni per Slash e B.B.: si notano le radici simili di entrambi nonostante gli stili diversi e una vita agli antipodi, dovuta anche alla notevole diversità di età, esattamente quarant’anni. Quasi mezzo secolo li divide, ma la musica li unisce. Vediamo ora come è riuscito un nero nato e cresciuto in una piantagione a diventare uno dei più grandi chitarristi blues (e non solo) di tutti i tempi e ispirare una frotta di amanti delle sei corde, fra cui il giovane Saul Hudson, per tutti Slash.
L’incredibile vita in musica di Blues Boy
Le origini umili e quel ritmo sempre nel cuore
Poche note di una melodia possono allargare i confini del cuore. B.B. King ne è sempre stato sicuro. Nessuno meglio di lui, cresciuto in un’immensa piantagione di cotone, poteva donare una nuova prospettiva alla musica tanto amata, il blues, diventandone uno dei giganti. Il 16 settembre del 1925 nasce Riley B. King, il contadino di Itta Bena, piccolo paese disperso nel Mississippi. Raccogliere cotone è il suo lavoro fin dall’infanzia, mentre la sua passione sono il blues, il jazz, ma anche il gospel, cantato con devozione quando si reca in chiesa con la madre e la nonna.
T-Bone Walker e Charlie Christian sono i suoi primi eroi. Tuttavia, la prima vera virata verso il mondo dello spettacolo avviene a ventun anni. Dopo un soggiorno a Indianola, si trasferisce a Memphis e si mette in contatto con il cugino Bukka White, chitarrista country blues innamorato di Charley Patton.
Il giovane Riley è autodidatta, migliora sempre più la conoscenza con la sua amata sei corde. Ed è tramite le sue trasmissioni alla radio WDIA che comincia a utilizzare l’appellativo di Blues Boy King. Inventa un ruolo di conduttore, un DJ che fa ascoltare la musica di altri, inserendo talvolta un suo disco, a un popolo di ascoltatori neri. Siamo nel 1949 e il Nostro registra Miss Martha King, la sua prima canzone.
Il successo degli anni Cinquanta e il blues revival dei Sessanta
La canzone prende il titolo dalla sua prima moglie, Martha King, e diviene il lato A del suo singolo di debutto a 78 giri. Questa pietra miliare rappresenta un grande traguardo personale per un musicista che, pensate, all’epoca aveva un problema di balbuzie quando parlava. Sempre alla WDIA, B.B. King registra altri pezzi per la Bullet, una casa discografica di Nashville, fra cui il retro di Miss Martha King, intitolato When Your Baby Packs Up and Goes. Anche se i brani non ottengono il riscontro desiderato in classifica, l’uscita del disco gli offre l’opportunità di fare un tour e di esibirsi in piccoli teatri e locali.
Due anni dopo, con il suo passaggio dalla Bullet all’etichetta sussidiaria della Modern Records, la RPM, la sua originale rilettura di Three O’Clock Blues di Lowell Fulson gli permette di fare centro. Pare che nella maggior parte delle sue registrazioni con la RPM abbia suonato una Fender Telecaster, prima di diventare il noto Gibson aficionado.
Comunque sia, la canzone si piazza per cinque settimane al primo posto nella classifica Rhythm and Blues della rivista Billboard. Fa, così, guadagnare a King l’attenzione e il rispetto per cui aveva lavorato ardentemente. Finalmente la sua carriera parte di slancio, con l’opportunità di esibirsi davanti a un pubblico nazionale nei grandi teatri, come l’Howard Theater di Washington e l’Apollo di New York.
Nel 1957 la composizione viene inclusa nel primo album di King, Singin’ the Blues, una raccolta di tracce incise tra il ’51 e il ’56, ove fanno capolino altri instant classics del calibro di Every Day I Have the Blues e Sweet Little Angel. Il successo prosegue anche negli anni Sessanta (leggendario il suo Live at the Regal del 1965!) con la realizzazione di svariati album, ma cominciano gli alti e bassi. Infatti lo sviluppo straordinario del rock, nato proprio dall’evoluzione del blues in un genere più marcatamente commerciale e “universale”, relega allo status di nicchia la musica del diavolo. Tuttavia il revival di stampo chiaramente british messo in moto dai Rolling Stones e John Mayall con i suoi Bluesbreakers riporta in alto le quotazioni del blues, e innalza nuovamente la sua storia.
Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page, oltre a Carlos Santana e Mike Bloomfield oltre oceano, contribuiscono a tenere alta la bandiera di Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Buddy Guy e B.B. Un vessillo che sventola con ancora più forza di prima per il padrone di Lucille nel 1969, grazie a Completely Well, capolavoro in cui figurano due dei suoi classici indimenticabili, Confessin’ the Blues e The Thrill Is Gone.
Quest’ultima appare completamente trasformata rispetto all’originale di quasi vent’anni prima pubblicata da Roy Hawkins e spinge il chitarrista statunitense, insieme alle altre potenti e ispirate tracce presenti nell’opera, verso un’imprevedibile popolarità, emancipando un’intera generazione di musicisti e raggiungendo un pubblico molto più vasto e non limitato alla comunità afroamericana. Potere della Musica!
L’altalena dei Settanta e la capacità di reinventarsi degli eighties
Due bellissimi live si intersecano con alcuni lavori in studio di spiccata qualità artistica (cui in verità se ne aggiungono altri un poco spenti e ripetitivi) durante i Settanta. Certamente Indianola Mississippi Seeds, con all’interno la struggente Hummingbird, lo stupendo Live in Cook County Jail e gli altri due straordinari album sempre dal vivo con Bobby Bland caratterizzano il periodo 1970-76. Midnight Believer (1978), invece, inizia il rapporto con i mitici Crusaders e presenta una gemma del calibro di Never Make a Move Too Soon.
Diversamente nel decennio successivo il re del blues paga lo scotto dell’avvento del synth pop, tra la plastica di tante tastierine e il trionfo del culto dell’effimero e dell’immagine. L’ arte della musica ha comunque un grande sviluppo e rimangono parecchi momenti epocali pure negli eighties, anche se non sempre qualitativamente all’altezza dell’evoluzione in atto.
Il buon B.B. si barcamena grazie a una canzone che rispecchia la sintesi dell’epoca, Into the Night. Il brano in questione ha il potere di tirarlo fuori dai cassetti delle cose dimenticate e gli offre la possibilità di far ascoltare nel marasma mainstream la sua splendida Lucille, sempre potente e importante. Into the Night è presente nella colonna sonora dell’omonimo film del 1985, nel documentario di quell’anno a lui dedicato, e nella tracklist del suo cinquantesimo album (considerando sia le pubblicazioni live sia in studio) Six Silver Strings.
When Love Comes to Town, Live at St. Quentin e quel nuovo stuolo di affezionati
La fine degli anni Ottanta e l’avvento del decennio successivo vengono vissuti intensamente da B.B. King, sempre ancorato con passione, dedizione ed emozione alla sua musica per rincorrere la vita che gli sfugge via, per allacciare i sogni che stanno dileguandosi, pronto ad avvolgersi fiducioso nella notte stellata del proprio destino.
When Love Comes to Town nasce dalla inaspettata collaborazione con gli U2: la band irlandese è all’apice della popolarità, dopo The Joshua Tree, e pubblica Rattle and Hum, cronistoria delle molteplici influenze musicali accolte dal gruppo. Durante il lovetown tour la canzone viene suonata regolarmente come encore insieme a B.B. e alla sua band contribuendo a far conoscere a una nuova generazione il bluesman. Il 1990 regala pure uno dei dischi dal vivo più belli e commoventi del secolo, Live at St. Quentin.
In una calda e umida domenica di fine maggio, il chitarrista nato nel Mississippi suona nella San Quentin State Prison, la più vecchia prigione della California, situata a nord di San Francisco, regalando attimi di spensieratezza ai detenuti, accarezzandoli con la sua incredibile storia di redenzione e riscatto tramutatasi in Musica, scialuppa di salvataggio per chi ancora crede che la speranza sia una risorsa, pure nelle condizioni più difficili e umilianti.
La commovente performance inizia non a caso con Let the Good Times Roll, uno standard di Luis Jordan And His Tympany Five, sfornato poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e pensato per far dimenticare i problemi del mondo e vivere l’attimo, quel particolare momento. Ebbene, una simile ambizione musicale non è quindi una novità. Un tema principalmente caro ai giorni nostri e comunque riecheggia in maniera altisonante e appropriata (esempio di come una semplice canzone possa scardinare gerarchie e luoghi comuni) anche nella sede di questo concerto. Si tratta di un invito a fare festa, la vita è una sola e vale la pena di spenderla bene in quanto il tempo non è qualcosa da dare per scontato.
Un pezzo e un titolo potenti, capaci di oltrepassare la cultura afroamericana e diventare un compendio di frasi e concetti universali, sfondando la spessa coltre ideologica che divide il “pensare” da uomo bianco rispetto a quello di un uomo nero. Live at San Quentin, insieme al successivo Live at the Apollo, prosegue il momento d’oro del Nostro. Sempre più chitarristi in erba (o romantici amanti del blues) scoprono (o riscoprono) le virtù dell’immarcescibile B.B. King, il suo straordinario guitar tone e la sua eccezionale band, tra fiati e un organo Hammond da urlo.
Il successo internazionale tra fine e nuovo secolo, tra collaborazioni celebri e sorprendenti comparsate anche in Italia
Deuces Wild
Dopo Lucille & Friends del 1995, interessante raccolta di canzoni degli ultimi venticinque anni di carriera suonate insieme agli artisti che hanno collaborato ad esse, da Leon Russell e Joe Walsh agli U2 e Diane Schuur, è il turno di Deuces Wild (1997), uno dei suoi più recenti successi. In tal caso le sue hit storiche vengono reinterpretate in duetto con un musicista famoso. Vi sono molte sorprese negli special guests e tutto il disco è permeato da arrangiamenti moderni, tuttavia sempre rispettosi della tradizione e della classe di King.
Così si va da uno splendido Van Morrison, in If You Love Me, all’accoppiata intrigante con i Rolling Stones per Paying the Cost to Be the Boss. Meritano una citazione particolare il rapper Heavy D., che in Keep It Coming incastona il suo hip-hop tra le note di Lucille, una sentita The Thrill is Gone con la bravissima songwriter Tracy Chapman e Let the Good Times Roll con l’unico italiano presente, Zucchero, a dimostrazione che anche il Belpaese può vivere, respirare il blues, in tutte le sue illuminanti sfaccettature.
Quell’intenso legame con Zucchero e l’Italia
Sono parecchie le occasioni in cui si è potuto assistere a uno show di B.B. King in Italia, ma rimangono certamente leggendari anche gli incroci, i “crossroads” tanto cari qui a Planet Guitar, con artisti del luogo.
Edoardo Bennato incontra il bluesman del Mississippi in due occasioni memorabili, nel 1990 al Pistoia Blues e due anni dopo al Rocce Rosse Blues. E proprio Sugar Fornaciari gode delle note inconfondibili della mitica Gibson del Nostro alla fine del secolo scorso, il 1° giugno 1999 al Pavarotti and Friends. Hey Man vive di nuova luce in questa struggente interpretazione del duo. Ancora una volta si evidenziano l’umiltà e la passione irrefrenabile del chitarrista americano, che si gode il momento e suona con carisma ed empatia apprezzando il talento di Zucchero, trattandolo come un proprio pari, senza mai cercare di surclassarlo.
Il riscontro internazionale di Riding with the King: l’amicizia speciale con un suo grande e speciale fan
“Ci sono tanti interpreti che ho ammirato e imitato, ma il vero re è B.B. Rappresenta senza dubbio il più importante artista blues mai esistito, e l’uomo più umile e sincero che io abbia mai incontrato. Come statura artistica credo che se Robert Johnson si fosse reincarnato, sarebbe B.B. King.”
Più di trent’anni dopo la prima volta che avevano suonato insieme al Café Au Go Go, Clapton incide con il suo idolo l’album tanto desiderato. Già dal titolo, Riding with the King (2000), emerge tutta l’ammirazione tributatagli da Slowhand, che si evidenzia anche dalle parole tratte dall’autobiografia del 2007. La realizzazione di un sogno, con una serie di brani non scontati ripescati dalla lunga carriera del chitarrista nero. Ten Long Years, Days of Old e When My Heart Beats Like a Hammer si fondono con la contemporaneità di Marry You e I Wanna Be, e con classici senza tempo del calibro di Hold On, I’m Comin’, Come Rain or Come Shine e Worried Life Blues.
Il disco vince il Grammy Award come miglior album di blues tradizionale. Ottiene un riscontro commerciale di altissimo livello in tutto il mondo e cementa un’amicizia e una stima reciproca senza confini, che già negli anni Novanta li aveva avvicinati con il duetto in Rock Me Baby per Deuces Wild e in numerose comparsate live. Il nuovo secolo comincia con una collaborazione dei due a Blues Singer di Buddy Guy per la rivisitazione acustica di un classico di John Lee Hooker, Crawling King Snake. In seguito vede un’ulteriore partnership in The Thrill Is Gone, nell’ottimo B.B. King & Friends: 80 (2005), e le appassionate partecipazioni del re del blues alle varie edizioni del Crossroads Guitar Festival. Due anime salvate da una chitarra e dal blues!
La bellezza evocativa di One Kind Favor e l’inarrestabile vita on the road, fino alla fine
Il suo ultimo, bellissimo disco in studio One Kind Favor (2008), circondato da quel mago di Dr. John e da session man di lusso del livello di Nathan East e Jim Keltner e l’instancabile attività live vissuta fino alla fine dei suoi giorni sono la sintesi dell’incredibile patrimonio lasciato da un uomo con eccelse qualità morali e professionali.
E così, lo splendido Live at the Royal Albert Hall di cui ci siamo occupati ad inizio articolo risuona come una sorta di testamento musicale e spirituale. Il testamento di un uomo rispettoso della vita e dell’arte, innamorato della sua chitarra e dei suoi amici chitarristi. Everyday I Have the Blues eseguita al Crossroads Guitar Festival nel 2013 insieme ai compari Jimmie Vaughan, Clapton e Robert Cray assume connotati commoventi pensando alla sua dipartita in un triste giovedì di metà maggio 2015.
Ora il suo blues, le sue ballate e i suoi shuffle colorano di nuove tonalità le stanze del paradiso dei musicisti, ove si odono ancora i gemiti della sua Gibson, con un suono pulito e profondo che entra nel cuore esprimendo quella malinconia e sofferenza unica di quel genere, ove tristezza e gioia panica convivono nello stesso momento.
La passione di B.B. King per la sua Lucille e per i grandi chitarristi
King ha scritto una canzone intitolata Lucille (da non confondersi con My Lucille composta per lui da Ira Newborn nel 1985) in cui parla della sua chitarra. Il brano è stata pubblicato per la prima volta nell’album omonimo del 1968. Lucille prende il nome di una donna, causa di una rissa in un locale dove B.B. stava suonando nel 1949. Gli animi agitati fanno cadere a terra un bidone di kerosene usato come riscaldamento e scoppia un incendio.
Tutti scappano, ma lui torna dentro: aveva dimenticato la sua chitarra. Per ricordare questo rischio e la salvezza di ciò che era importante per la sua vita, l’amata sei corde, la battezza con il nome della ragazza, motivo del litigio. Da allora tutte le sue chitarre, principalmente Gibson nere riconducibili alla ES-330 o alla ES-355 si chiamano in quel modo. Nel 1980 Gibson introduce un modello personalizzato di B.B. King, basato su quest’ultima. Tuttavia, l’artista è noto soprattutto per aver suonato varianti della Gibson ES-335. Nel 2005, in occasione dell’ottantesimo compleanno, viene realizzata una serie speciale, denominata 80th Birthday Lucille.
Il giusto premio per un personaggio dallo stile unico, che alterna parti soliste di chitarra al cantato, praticamente senza mai eseguire la ritmica, l’accompagnamento nei suoi brani. L’utilizzo di un fluido bending, un vibrato scintillante e un picking staccato ha influenzato una pletora di chitarristi, dimostrando ancora una volta come il blues sia il padre dei generi moderni, del rock and roll e dei suoi derivati.
I migliori chitarristi, suoi contemporanei e delle successive generazioni, come in parte abbiamo visto anche in questo articolo, non si sono lasciati sfuggire l’occasione di collaborare in studio e sul palco con uno dei tre King of the Blues. Da Albert Collins a Jeff Beck, da John Mayer e Kenny Wayne Shepherd a Gary Clark Jr., la lista è interminabile. Ma un incrocio con un musicista a tutto tondo che ci ha lasciato troppo presto merita in particolare di essere ricordato, sia per intensità, sia per affinità elettive: stiamo parlando del fenomenale Stevie Ray Vaughan. Il ciclo “Crossroads”, con gli incontri tra grandi artisti/chitarristi, non si ferma. Alla prossima puntata!
Stay tuned
To be continued…
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