Il fuoco incontra il furore. La serie “Crossroads” si arricchisce di un altro meraviglioso incrocio. Due virtuosi capaci e felici di dimostrare come sia possibile superare ogni ostacolo. SRV e Jeff Beck hanno sempre lasciato parlare le loro chitarre, creando riff potenti alternati ad aggraziate armonie, toccando le corde del cuore e facendo sognare con la loro musica celestiale. Parafrasando uno dei dischi più belli pubblicati recentemente da Beck, si provano “Emozione e Commozione” ad ascoltare le loro canzoni, la loro storia, i loro incontri.

© MediaPunch Inc – Everett Collection Inc / Alamy Stock Photo

Estro, virtù e sentimento. I tumultuosi incroci di due fra i più grandi chitarristi su questa Terra

Il primo incontro del 1984

Predestinati a suonare insieme

Chi avrebbe scommesso sull’amicizia tra Jeff Beck e Stevie Ray Vaughan? Due animali da palcoscenico, entrambi con un’arma letale tra le mani, l’inseparabile chitarra, ma il resto? Il primo con la faccia da simpatica canaglia, l’aria frivola e quel classico humor inglese che sa di eterna presa in giro. Scanzonato e scazzato, più preoccupato di assemblare pezzi per costruire auto d’epoca che pensare a raggiungere il successo, pur essendo uno dei più grandi chitarristi su questa Terra. L’altro irrefrenabile nella musica e nei vizi, un texano testardo innamorato di Jimi Hendrix con una voglia pazza di sfondare e un’adrenalina sempre a palla. 

Eppure si incontrano per la prima volta nel 1984 a una convention della loro etichetta comune, la CBS Records, a Honolulu e sembrano due fratelli, separati alla nascita…

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Amici e guasconi, con la musica nel profondo del cuore

È meraviglioso vederli sullo stesso palco, accompagnati dai Double Trouble. Jeff arriva per la parte finale con la sua Jackson rosa così fuori dall’ordinario e comincia a suonare cose inaudite! Stevie si divide tra la mitica Stratocaster Number One e la Charley. Oltre a loro ci sono il fratello di Stevie, Jimmie, e Angela Strehli. Uno show indimenticabile, con pezzi autografi e alcune cover infuocate, fortunatamente immortalato per i posteri (anche se la qualità audio/video lascia a desiderare), che dimostra già lo spirito di camerata tra i due.

Ironia, umiltà e voglia di sdrammatizzare affiorano anche in una successiva intervista per MTV. Beck, ridendo, racconta: “Ricordo che cercai di contattarlo per fare le prove e lui mi rispose: ‘Seriamente? Perché diamine vuoi farle?’ Diavolo d’un Stevie!”. SRV ha poi ammesso di aver provato per un giorno o poco più, ma rammenta soprattutto di essersi divertito come un pazzo e di aver imparato tanto da Jeff: “Abbiamo abbozzato alcune canzoni insieme un paio di volte, fumato sigari giganteschi come se non ci fosse un domani e poi, carichi ed euforici, siamo andati a suonare divertendoci un mondo!”.

Vaughan narra infine dello stupore per un “solo” formidabile del suo compare: “Mi ci è voluto non so quanto tempo per capire cosa avesse suonato. E se ci sta prendendo in giro o sa davvero quello che sta facendo prima di farlo, non lo so. Non ha molta importanza. Ma ha finito l’assolo con un gran sorriso, si è infilato la mano in tasca ed è rimasto lì per un po’, come a dire: ‘Questo me lo metto al sicuro’. È stato incredibile”.

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Il bis del 1989. La ciliegina sulla torta di un anno epocale per entrambi 

The Fire Meets the Fury

Quella sera a Honolulu scatta una scintilla tra i due guitar hero. Non solo a livello musicale. Si sentono simili, con gli stessi dubbi, le medesime speranze, l’insopportabile peso di non dover deludere mai. Condividono la passione per l’adorato strumento, per un certo tipo di musica. Vaughan ha finalmente la possibilità di parlare con una persona che Jimi Hendrix l’aveva conosciuto e frequentato per davvero. Jeff è felice di trovare in Stevie un artista tanto vicino per storia e attitudini all’indimenticato eroe di Seattle, un genio che aveva lasciato questo mondo troppo presto.

Così nei successivi cinque anni i due si mantengono in contatto, non si perdono di vista, e destino vuole si riabbraccino sul palco proprio in uno dei loro momenti migliori. SRV, dopo tante peripezie si è infine miracolosamente disintossicato e ha pubblicato In Step, il suo primo, formidabile album da sobrio. Beck è appena uscito con Jeff’s Beck Guitar Shop, che si rivelerà uno dei suoi lavori epocali.

Intitolata The Fire Meets the Fury Tour e ideata dall’etichetta discografica in comune Epic Records, la tournée coinvolge i due chitarristi per 29 date con partenza da Minneapolis, Minnesota, rivelandosi un successo di pubblico (e critica) conclamato.

I due guitar heroes immortalati nella data dell’11 novembre 1989 al mitico Madison Square Garden, NYC – © MediaPunch Inc / Alamy Stock Photo

Una serie di show alla pari, nel rispetto massimo l’uno dell’altro

Le band fanno le prove negli studi di Prince a Paisley Park il 23 e 24 ottobre, prima di iniziare il tour il giorno seguente, nel vicino Northrop Auditorium di Minneapolis. Sia Vaughan che Beck vengono pubblicizzati come headliner e ricevono lo stesso numero di biglietti per il tour. Per garantire la parità di posizioni, si alternano nel ruolo di opener. L’idea vincente è quella di lasciare uno spazio alla fine per cementare le due performance: uno dei momenti migliori cattura i due virtuosi mentre duellano in Going Down, il celebre standard rock blues scritto da Don Nix.

Il brano, non ci sarebbe bisogno di dirlo, mette in mostra la forza unica di questi giganti della Strato.

Fender Jeff Beck Strat OW

Fender Jeff Beck Strat OW

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(25)

Improvvisazione e ispirazione

In linea con lo spirito di condivisione dei riflettori del tour, Beck lascia a Vaughan l’inizio delle danze in questo classico interpretato anche da Freddie King, uno degli idoli comuni. Il texano parte con autorità e una velocità vertiginosa. Il fraseggio è perfetto e vi è una potenza pura e travolgente, che stimola Jeff al limite delle sue possibilità, eguagliando la ferocia del compagno, ma in maniera tutta sua. Si sprigionano un’energia e una forza incredibili. Questi due personaggi mai domi evocano l’epopea dei prodi condottieri con il magico strumento a sei corde in luogo della spada. Eccoli così affrontarsi nella sfida, a cavalcare la ritmica alla testa di feroci e selvaggi assalti chitarristici che forgiano la proteiforme fluidità del rock. 

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Dopo la fine di quella storica ed estenuante tournée, pochi mesi prima di morire, SRV appare sulla copertina di Guitar Player del febbraio 1990 insieme al suo buon amico Jeff Beck. A suggello di una magnifica alchimia, di un’affinità elettiva talmente forte da far pensare in grande. Chissà che sarebbe successo, quali sarebbero stati i loro progetti senza quel maledetto 27 agosto…

La profonda passione in comune per blues e rock: due fratelli separati da un oceano

“Penso che Stevie Ray sia la cosa più vicina a Hendrix quando si tratta di suonare il blues”.

JB

Con dieci anni di differenza, Jeff potrebbe essere considerato come il fratello maggiore, anche se Stevie già ne aveva uno realmente, Jimmie, così importante per il suo sviluppo in musica. Comunque si voglia vedere la cosa, l’ammirazione di SRV per Beck è totale. Lui, Clapton e Page rappresentano la “ribellione” chitarristica e culturale, insieme all’amato Hendrix, e costituiscono l’anello di congiunzione con i bluesman tanto adorati. B.B., Albert e Freddie King, Buddy Guy e Otis Rush sono gli stessi eroi dell’istrionico inglese, senza dimenticare due dei capostipiti del genere, Son House e Robert Johnson.

Proprio per questo si instaura subito un rapporto speciale tra i due, mutuato pure dalla passione condivisa per il leggendario Lonnie Mack, virtuoso della sei corde troppo spesso dimenticato. Un rivoluzionario noto soprattutto per lo stile e la tecnica chitarristica negli assoli. L’imprescindibile The Wham of That Memphis Man (1963) rimane il suo disco di punta e contiene per l’appunto Wham!, cavallo di battaglia live per SRV, mentre Beck, oltre che per quel LP, va pazzo per il singolo Lonnie on the Move (1964).

Analizzando altri artisti che hanno influenzato Jeff, ne affiorano alcuni prediletti anche da Stevie, come Django Reinhardt, Steve Cropper e Les Paul, sempre a dimostrare una forte empatia tra loro. Altri pallini del chitarrista inglese sono gli Shadows di Hank Marvin, Ravi Shankar, Chet Atkins, Cliff Gallup (a cui dedicherà un suo disco, Crazy Legs, nel ’93) e Roy Buchanan, a testimonianza di una infinita curiosità per generi e sonorità di differente tipo.

“Una delle cose che mi fa impazzire di quello che fa Jeff è il fatto che prenda le radici della storia della musica moderna e sia in grado di farle andare molto al di là”.

SRV

In poche parole Stevie condensa l’essenza della missione su questa Terra compiuta da Jeff Beck. Un viaggio che lascia presagire l’originalità e unicità del personaggio fin dall’inizio…

Jeff Beck on stage con la sua Stratocaster Olympic White © Debby Wong / Shutterstock

Nato predestinato. La storia di un meccanico prestato alla musica

Un bambino prodigio

Jeff Beck nasce il 24 giugno 1944 a Wallington, nella zona sud di Londra. Suo padre è un contabile, la madre operaia in una fabbrica di cioccolato. Fin dall’età di sei anni si appassiona alla chitarra elettrica dopo aver ascoltato le popolari registrazioni di Les Paul con sua moglie Mary Ford. In seguito canta in un coro della chiesa, ma, tra sacro e profano, sceglie la seconda opzione. Rimane infatti folgorato dal rockabilly e dal proto-rock ‘n’ roll di Gene Vincent, in particolare dal chitarrista del gruppo, il già menzionato Cliff Gallup.

Da adolescente impara a suonare con una chitarra presa in prestito e affina il suo orecchio ascoltando per ore e ore musica in un negozio di dischi. Frequenta la Wimbledon School of Art, preferendo coltivare amicizie e affinare la propria tecnica rispetto al mero studio nozionistico. Per un breve periodo lavora come pittore e decoratore, si cimenta nel giardinaggio in un campo da golf e, da grande appassionato di automobili, si dedica alla loro verniciatura e meccanica. Il suo amore incondizionato per le hot rods nasce già in tale frangente.

Billy Gibbons (ZZ Top), Jimmie Vaughan e Jeff Beck (Yard Birds) al Goodwood Festival of Speed 2010, ©: Smudge 9000 CC BY-NC 2.0 DEED

L’incredibile inventiva e le prime band

La sua creatività si evidenzia non solo tra i motori: nel corso degli anni si ingegna per costruire la propria chitarra. Uno dei primi tentativi avviene incollando e imbullonando insieme delle scatole di sigari a formare il corpo e usando un palo di recinzione non levigato per il manico con i tasti semplicemente dipinti su di esso. Il tempo scorre velocemente quando ci si pongono grandi obiettivi e far musica è uno di questi, è la cosa che gli fa più palpitare il cuore insieme alle macchine da corsa. Giungono così i primi gruppi. 

Siamo nei magici sixties e Jeff forma i Nightshift, suona il rockabilly con i Rumbles e l’r&b con i Tridents; partecipa inoltre come turnista alle session di alcune band, fra cui i Savages di Screaming Lord Sutch. Le sue innate doti e l’incredibile estro stanno già brillando, tuttavia la vera svolta avviene nel marzo ’65 con gli Yardbirds di Relf, Samwell-Smith, Dreja e McCarty

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L’inizio e la consacrazione nel mondo della musica

Gli Yardbirds e lo “sgarbo” a Clapton

Jimmy Page, conosciuto tempo prima grazie alla sorella Annette, suggerisce il nome di Beck agli Yardbirds, orfani di Eric Clapton, allontanatosi per divergenze musicali. Slowhand è deluso dalla svolta commerciale del gruppo e si chiama fuori, ma in futuro ammetterà di aver preso male la notizia della sua sostituzione con un artista del calibro di Jeff. Tuttavia, come spesso capita nel mondo delle sette note, le invidie e le rivalità sfoceranno poi in amicizia e bellissima musica. 

Beck rimane solo venti mesi nel gruppo britannico, però il suo suono sinuoso e tortuoso con riflessi mediorientali e le sue linee di distorsione contribuiscono a definire i successi del gruppo, hit del calibro di Heart Full of Soul, Over, Under, Sideways, Down e, soprattutto, Shapes of Things.

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Inquietudine, gloria e successo. 1966-72: gli anni pieni di peripezie e i due volti del Jeff Beck Group

La parentesi “divertente” di Blow Up e la fine del momento d’oro con Keith Relf e compagni

Gli Yardbirds sono ormai sulla cresta dell’onda e lo stesso Page entra nel giugno 1966 nella formazione al posto di Samwell-Smith, dapprima come bassista e in seguito come secondo chitarrista solista. Proprio in quell’epoca la band compare in una scena del film Blow Up del regista Michelangelo Antonioni, innamoratosi della formazione durante un loro show alla Royal Albert Hall. Il protagonista della pellicola entra in un nightclub affollato sulle note degli Yardbirds che suonano una versione spiritata di Stroll On, adattamento del classico Train Kept A-Rollin’.

Durante la canzone, Beck continua a sbattere la sua chitarra contro l’amplificatore Vox per la frustrazione di un cavo che scoppietta, per poi ridurla in frantumi sul palco prima di gettare i frammenti dello strumento distrutto tra il pubblico impazzito ( questo un anno intero prima che Hendrix e Pete Townshend spaccassero le loro chitarre durante i loro set al Monterey Pop Festival!).

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Sono comunque spiccioli di vita e “buonumore” prima del “divorzio”. Jeff viene licenziato durante una tournée negli Stati Uniti per la sua costante assenza, oltre che per i problemi causati dal suo perfezionismo e dal suo temperamento esplosivo sul palco. Irrequieto, orgoglioso e impulsivo, il Nostro è ormai pronto per un’avventura in cui vestire i panni del personaggio principale.

Una nuova audacia e le due anime del Jeff Beck Group

Il desiderio di incamminarsi su una strada propria gli fa registrare Tallyman e la celebre Hi Ho Silver Lining. Ora più che mai Beck è convinto che sia il suo momento e lo dimostra cantando in entrambi i brani. Il richiamo della sei corde è però più forte della vocazione vocale e nel ’68 esce Truth, il primo album a nome Jeff Beck Group, con Rod Stewart alla voce e Ronnie Wood al basso. Il disco è un tripudio di chitarre, dal wah-wah di You Shook Me alla rilettura di un altro classico blues, I Ain’t Superstitious. Si evidenzia anche Beck’s Bolero, meraviglioso strumentale scritto a quattro mani con Page e futuro cavallo di battaglia dei concerti a venire.

Il senso di avventura dell’assolo, l’impavidità, quel continuo dimostrare di non temere nessuno, rappresentano il modus operandi chitarristico dell’artista inglese. Nessuno agli inizi dei Settanta è come lui. Il suo stile, la sua maniera di fare musica alla ricerca di nuovi orizzonti sono il cuore pulsante della sua essenza, tra concerti e pregiate incisioni in studio. Dopo la seconda fatica Beck-Ola (1969) il supergruppo si scioglie, è troppo forte l’ego di ciascun personaggio, ma Jeff non si perde d’animo e continua le scorribande musicali partecipando al progetto Music from Free Creek, con lo pseudonimo di  A. N. Other. Dopo un terribile incidente in auto da cui fortunatamente riesce a riprendersi, riforma con altri elementi, tra i quali lo straordinario batterista Cozy Powell, il Jeff Beck Group.

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L’irrefrenabile e continuamente innovativa carriera solista 

I favolosi Anni Settanta e quel capolavoro di Blow by Blow

Escono così Rough and Ready (1971) e l’omonimo Jeff Beck Group (1972), con un sound chiaramente dedicato all’incrocio di più generi, dal soul al jazz, dimostrando, al solito, il Nostro un passo avanti rispetto ai tempi. Un nuovo mutamento di paesaggi sonori avviene l’anno successivo con l’album a nome Beck, Bogert & Appice, registrato con il bassista Tim Bogert e il batterista Carmine Appice del gruppo rock degli anni ’60 Vanilla Fudge. Superstition di Stevie Wonder è il brano di punta, e la collaborazione con il songwriter statunitense prosegue in Blow by Blow (1975).

Uno dei capisaldi del rock strumentale con sfumature jazz fusion, Blow by Blow è anche la dimostrazione della possibilità, per la chitarra, di sostituire la voce, il canto. Tutto è plausibile quando a suonarla è Jeff Beck. Tale LP rimane un punto di riferimento imprescindibile ancora a quasi cinquant’anni dalla sua realizzazione. La leggenda narra che proprio poco prima dell’ideazione di quest’opera i Rolling Stones volessero Beck in sostituzione di Mick Taylor. Certo ne avremmo viste delle belle, ma quanto sarebbe durato il sodalizio? E come faremmo senza Blow by Blow, senza le sue straordinarie canzoni, concepite per durare in eterno?

Già nell’iniziale You Know What I Mean, il pungente assolo di Beck, basato sul blues, è pieno di forme fantasiose e salti audaci, mentre in Air Blower elaborati strati di chitarre d’accompagnamento e soliste trovano il loro posto nel mix. Spinto da una sezione ritmica indiavolata, composta dal propulsivo batterista Richard Bailey e dal bassista Phil Chen, dalle linee solide come un macigno, Jeff si fa strada senza frenarsi in Scatterbrain, dove un vertiginoso riff di tastiera di Max Middleton spinge a un approccio più energico. 

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Altre due vette del disco sono la versione reggae di She’s a Woman, traccia meno conosciuta dei Beatles, con un sorprendente e inaspettato utilizzo del talk box, e la struggente ballata Cause We’ve Ended as Lovers, che ci riconduce a Wonder. Qui il Genio della sei corde fa uscire dalla sua chitarra sospiri e urla per una dolorosa dedica a Roy Buchanan, uno dei pionieri della Fender Telecaster da lui tanto ammirato e di cui era diventato amico.

Blow by Blow è bilanciato da improvvisazioni aperte e da un’interazione nitida tra l’ensemble, evitando la pomposità che ha affossato gran parte della fusion jazz rock del periodo. E Cause We’ve Ended as Lovers diventa immediatamente un classico nei suoi show. La svolta strumentale di questo lavoro di ampio successo, certificato da vendite e apprezzamento di critica e pubblico, convince l’ex membro degli Yardbirds a proseguire su questa strada. Tuttavia Wired, dell’anno successivo, nonostante l’azzeccata partnership con Jan Hammer e un’infuocata Led Boots, risulta meno intenso e maggiormente prevedibile.

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Gli alti e bassi di eighties e nineties

Durante gli anni Ottanta, Beck registra album potenti, ma piuttosto anonimi. There & Back (1980) brilla solo per Star Cycle e The Pump. Flash (1985) si salva per lo struggente duetto soul con il redivivo Rod Stewart in People Get Ready. Le sorti si risollevano un anno dopo grazie a un super show in Giappone con Steve Lukather e Santana e con il già menzionato Jeff Beck’s Guitar Shop del 1989: un’uscita come power trio spoglia, ma robusta, insieme al tastierista Tony Hymas e il batterista Terry Bozzio.

Un lavoro indovinato che diventa disco d’oro e gli vale anche un Grammy per la migliore performance strumentale rock. I Novanta scorrono invece velocemente senza particolari scossoni. Beck dedica parecchio tempo ad altri artisti, registrando come session man per Jon Bon Jovi, Roger Waters, Kate Bush, Brian May,Tina Turner, Paul Rodgers, Buddy Guy, Stanley Clarke, John McLaughlin e Will Lee. Who Else! è il disco da ricordare del periodo. Pubblicato a fine decennio, è un interessante miscuglio di rock, techno ed elettronica, e comprende l’ipnotica Brush with the Blues, da quel momento brano di punta degli show live.

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Da You Had It Coming fino al piccolo capolavoro Emotion & Commotion

Elettronica, jazz, fusion e blues. L’amore per la commistione di generi e l’amicizia risbocciata con Clapton

Il nuovo secolo inizia con un bel disco, You Had It Coming, un ibrido che contempla il blues di Rollin’ and Tumblin’ reso moderno dall’interpretazione della bravissima Imogen Heap e subisce le influenze indiane del geniale Nitin Sawhney con Nadia. L’amore per l’elettronica prosegue in Jeff (2003). Si ritorna poi alla jazz fusion intrisa di rock nel sontuoso Live At Ronnie Scott’s del 2008, con il poderoso batterista Vinnie Colaiuta, l’estrosa bassista Tal Wilkenfeld e il noto tastierista Jason Rebello. Stratus, Cause We’ve Ended As Lovers, Scatterbrain, Led Boots e Goodbye Pork Pie Hat risplendono di nuova luce, mentre A Day in the Life merita una standing ovation.

Si rinnova inoltre il sodalizio con il nemico-amico Clapton tramite la rivisitazione di un paio di standard in dodici battute, Little Brown Bird e You Need Love. Così, dopo alcune esibizioni insieme negli eighties, la splendida partecipazione di entrambi nella decade successiva all’Apollo Theatre con Buddy Guy, B.B. King e Albert Collins, e le performance al Crossroads Guitar Festival, i due storici chitarristi degli Yardbirds si ritrovano e ci prendono gusto organizzando per il 2010 una serie di date dal vivo insieme. Il Together and Apart tour è l’occasione per Beck di presentare un album che in retrospettiva è un’altra pietra miliare della sua carriera.

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L’emozione e commozione di Nessun Dorma

Beck dimostra un’ulteriore ampiezza di vedute con Emotion & Commotion (2010), che include una dolcissima interpretazione di Over The Rainbow e gli  vale un Grammy nelle sezione Pop Instrumental (Nessun Dorma) e Rock Instrumental (Hammerhead). Di certo non smette mai di stupire, avvalendosi delle performance vocali di Imelda May, Joss Stone e Olivia Safe, e utilizzando un’orchestra di sessantaquattro elementi.

Si può definire l’album dell’ennesima rinascita, per un artista che continua a guardare avanti e finalmente riesce a incanalare completamente anche in studio quell’incredibile energia presente nei live. Da Jeff Buckley a Puccini è un diluvio di emozioni: la chitarra di Beck e la solennità dell’orchestra fanno sognare. La folgorante resa di Nessun Dorma rappresenta l’apoteosi. Ed è incredibile come possa permanere l’estasi, la commozione della romanza pucciniana per tenore, senza un tenore…o perlomeno sostituito da un uomo che imbraccia e fa gracchiare magnificamente una Fender. Pelle d’oca!

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Gli ultimi dischi e le sorprendenti collaborazioni prima della tragedia

Rock ‘n’ Roll Party: Honoring Les Paul (2011), dedicato a un uomo speciale come Les Paul e 18 (2022) in partnership con Johnny Depp sono i dischi da rispolverare in mezzo a un’intensa attività live piena di highlight, dagli show con Beth Hart alla reunion con Rod Stewart. Jeff sembra irrefrenabile, in uno stato di forma eccezionale, niente che faccia presagire l’improvvisa morte a 78 anni per una terribile meningite batterica. 

La sua triste e tragica dipartita è ancora una ferita aperta per i fan. Il chitarrista inglese è sempre sembrato invincibile, immortale, dall’alto della sua grandezza. Lo scorrere del tempo non lo aveva invecchiato come gli altri; i suoi occhi, il suo sorriso a metà tra l’ironico e il ruffiano, quasi un ghigno, non sentivano l’ingiuria, il peso degli anni trascorsi. Lui, la chitarra e una nuvola di borotalco immortalavano a ogni concerto quella sensazione di eternità cui si era abituati ascoltando le sue note ruggire e poi calmarsi, passando da un rock tosto alla musica classica senza nessuna barriera temporale.

La notizia della sua scomparsa il 10 gennaio 2023 ha frantumato quest’ultima speranza umana, che i giorni per lui fossero infiniti e potessimo sempre vederlo, imperturbabile, nascosto dietro ai suoi occhiali da sole, sapendo che nella sua testa c’era già un nuovo avvincente progetto musicale o un’auto hot rod, quelle sue speciali, da acquistare o riparare. Fortunatamente il mondo della musica è diverso da quello umano. E così rimangono le sue canzoni, le sue opere, ad allietare per sempre chi vorrà godersi il prodigio di ascoltare uno dei più grandi chitarristi di questa Terra. Un uomo che ha saputo superare i confini dell’ignoto con la sua amata Fender Stratocaster. Oltre l’arcobaleno.

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La tecnica e le chitarre di Jeff Beck

Innovazione, tecnica, creatività, sensibilità, grazia sono solo poche parole per tentare di descrivere quello che è stato (anzi è, visto che la sua musica non finirà mai di esistere) uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi. Parte della magia di Beck ha origine nella sua tecnica magistrale e mistificante. È uno dei pochi chitarristi rock a non utilizzare praticamente mai il plettro. Tutte le dita della mano destra entrano in gioco, non solo per pizzicare le corde, ma anche per manipolare il braccio vibrato e il controllo del volume della sua chitarra preferita, la Fender Stratocaster.

La straordinaria combinazione tra la tecnica del braccio vibrato e il bending delle corde della mano sinistra ha fatto di Beck un maestro del fraseggio “legato” e della microtonalità, le altezze “tra le note” di una scala occidentale temperata. Ciò lo rende in grado di evocare i suoni della musica indiana, bulgara e di altre musiche del mondo in un modo speciale, e aggiunge una qualità misteriosamente unica a quest’attitudine di suonare rock diretto. Il senso dell’intonazione di Beck è più complesso e sottile di quello di una persona comune. Non usando il plettro, le dita della sua mano destra sono libere di spaziare sulla tastiera per eseguire manovre di tapping che hanno tutta la grazia dei passi di danza classica.

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Un chitarrista così sofisticato ha quindi per ovvie ragioni avuto in dotazione tanti strumenti. Certo, le Strats rimangono da tempo immemore il suo top, con la Jeff Beck Stratocaster costruita addirittura per lui da Fender nel 1990 e la Custom Shop version disponibile dal 2004 negli iconici Olympic White e Surf Green. Partendo dal periodo degli Yardbirds e giungendo a quello con Bogert & Appice affiorano inoltre la Fender Esquire e le Gibson Les Paul, in particolare la oxblood del ’54 e la Standard. Abbiamo già adocchiato la Jackson rosa nello speciale CBS con SRV. Mentre sicuramente altre sue preferite, legate alla sua passione per Vincent e Gallup, sono le (1956) Gretsch 6128 Duo Jet e la 6022 Rancher. Tuttavia, l’elenco potrebbe andare avanti all’infinito, un po’ come per le sue auto d’epoca.

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Lo straordinario tributo di Clapton e compagni

La White Strato illuminata sul palco prima del tributo. Foto di Alessandro Vailati

Tutti noi amavamo Jeff Beck. E, parlando di chitarre, con lui non ce n’era per nessuno”.

John McLaughlin

Sono tanti i musicisti presenti al concerto tributo organizzato in due sere alla Royal Albert Hall da Eric Clapton nel maggio 2023, a dimostrazione di quanta ammirazione e affetto ci fosse per quest’uomo indimenticabile che ha portato la chitarra a livelli inimmaginabili. Sfilano onorati, emozionati e divertiti Kirk Hammett, Robert Randolph e Gary Clark Jr., oltre ai partner storici Wood, Stewart e McLaughlin. Sono al solito impeccabili Billy Gibbons, Derek Trucks, Susan Tedeschi, Doyle Bramhall II, Imelda May, Joss Stone e Olivia Safe. Brillano come non mai le due band di accompagnamento pilotate dai bassi infervorati di Nathan East e Rhonda Smith.

Si vede molto provato, infine, Johnny Depp, a stretto contatto negli ultimi tempi con il Maestro Beck. La conclusione è commovente, con l’intero ensemble on stage per Going Down (quale canzone poteva essere migliore se non questa per chiudere il cerchio della sua meravigliosa carriera?). E se ancora non fosse scesa alcuna lacrimuccia, la proiezione al termine dello spettacolo del video di una delle ultime registrazioni di Jeff, Moon River, insieme a Clapton, è l’epilogo più toccante che ci si potesse aspettare, con gli artisti abbracciati a tributare l’ultimo saluto al loro amico.

“Jeff ci ha lasciato, ma il suo ricordo e la sua musica vivranno per sempre”.

Eric Clapton

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Parecchi altri musicisti hanno omaggiato Jeff Beck con un pensiero dopo la sua scomparsa. Uno di questi è Mark Knopfler, che ha inciso una nuova versione di Going Home, il tema di Local Hero, proprio con lui fra i tanti ospiti poco prima della sua scomparsa. Pure Ozzy Osbourne, Ritchie Blackmore, Nile Rodgers, Slash, Steve Vai, Brian May, Mick Jagger, Keith Richards, Tony Iommi, Robby Krieger, Zucchero e il compagno di mille avventure Jimmy Page hanno scritto messaggi davvero strazianti. Ma anche un altro grande suo ammiratore ha speso parole struggenti. Uno straordinario chitarrista collegato per parecchi motivi a lui, come vedremo nel prossimo episodio di “crossroads”. Stiamo parlando di David Gilmour. Gli intrecci fra i grandi artisti/chitarristi continuano grazie a quel miracolo infinito chiamato Musica!

Stay tuned

To be continued…

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Alessandro Vailati