Nella sua valigia di cartone, posata sul suolo americano appena sbarcato dalla Germania, Oscar Schmidt ha messo il sogno di una nuova vita. È uno dei tanti immigrati che nella seconda metà dell’Ottocento lasciano l’Europa in cerca di fortuna. Ancora non sa che questo sogno lo porterà dritto nella storia del blues…

©  Andrea Leone/Shutterstock

Stella

Una volta stabilitosi in New Jersey, il signor Schmidt decide di fondare un’azienda a proprio nome a Jersey City. La compagnia produce strumenti musicali a corda: non solo chitarre ma anche mandolini, autoharp, banjo… 

A cavallo tra XIX e XX secolo la produzione cresce e si intensifica. Lo fa grazie a una rete di rappresentanti porta a porta che riesce ad arrivare anche nelle regioni più lontane del Deep South e a cataloghi di vendita per corrispondenza.

Il più diffuso è il catalogo di Sears and Roebuck, composto da centinaia di pagine. Solo un paio contengono annunci di strumenti musicali, ma sono sufficienti al signor Schmidt per far conoscere una chitarra particolare. Non costa molto, appena un paio di dollari: un prezzo tutto sommato accessibile. E porta un nome italiano: Stella.

Il suono del Delta blues

Due decenni dopo l’inizio della loro diffusione, le chitarre Stella diventano parte integrante della storia delle dodici battute. Gli anni Venti e Trenta del secolo scorso vedono affermarsi figure ammantate di leggenda come il texano Blind Lemon Jefferson, maestro del country blues; Charley Patton, il musicista errabondo del Mississippi; Tommy Johnson, che si dice abbia fatto un patto col diavolo ben prima del più noto Robert.

Questi e altri giganti della sei corde, ancora acustica, imbracciano chitarre Stella durante le registrazioni e non solo… E forgiano per sempre l’immagine del bluesman solitario che canta al mondo le sue storie accompagnato soltanto da una chitarra. Alcuni, non a torto, li definiscono veri e propri «storyteller» in musica.

Stella sembra fatta apposta per loro: è maneggevole, facilmente trasportabile, ha volume, risonanza e soprattutto possiede una voce quasi metallica difficilmente imitabile. Nella sua timbrica grezza, ma straordinariamente autentica risiede gran parte del fascino di questo periodo musicale, vera e propria radice di tutto quello che sarebbe venuto dopo.

Naturalmente in circolazione c’erano altri marchi, come i prestigiosi Gibson o Martin, altra ditta di strumenti ideata da un liutaio tedesco di nome Christian Frederick Martin. Già allora avevano prezzi molto più alti ed erano dunque difficilmente accessibili per musicisti di strada che, soprattutto all’inizio, si alternavano tra esibizioni e lavoro nelle piantagioni.

Stella e Kurt Cobain

Il mercato delle chitarre, fiorente nei primi decenni del Novecento, entra in crisi nel 1929 insieme a tutto il comparto economico americano. Molti artigiani che avevano messo su vere e proprie compagnie sono costretti a ridimensionarsi o a chiudere battenti. 

Il signor Schmidt però aveva visto lungo e, fiutando l’affare, aveva iniziato ad aprire alcune fabbriche anche al di fuori degli States. Una mossa vincente.

Il fascino delle chitarre Stella, infatti, non viene meno neanche nel secondo dopoguerra.

Lo stesso Kurt Cobain ne possedeva una. Un modello simile a quello del folksinger Leadbelly, nato sul finire dell’Ottocento in una piantagione della Louisiana. Sua è la prima versione registrata di Where Did You Sleep Last Night, nota a tutti quelli della mia generazione grazie alla struggente cover dei Nirvana nell’Mtv Unplugged in New York del 1994.

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National e Dobro

Ottime per registrare, le Stella avevano un po’ meno resa nelle esibizioni. 

In quel periodo i musicisti non potevano contare su un’amplificazione né su palcoscenici montati ad hoc. Suonavano per strada, nei locali e nei jukejoint, spesso in mezzo a persone intente a ballare, cantare, alzare il gomito e giocarsi un po’ di fortuna.

Farsi sentire in quel baccano era una questione decisiva per i bluesman. Curiosamente, lo stesso problema di volume ce l’avevano i chitarristi che suonavano nelle orchestre.

Le chitarre elettriche dovevano ancora vedere la luce, ma una soluzione la offrì un altro artigiano immigrato in America: John Dopyera, uno slovacco con la passione per la liuteria. Giunto negli States qualche decennio dopo Herr Schmidt, aprì un negozietto di riparazioni insieme al fratello Rudy, dedicandosi all’inizio soprattutto ai banjo.

Sollecitato da un cliente desideroso di aumentare il volume della sua chitarra, un giorno gli venne in mente un’idea: inserire una placca di alluminio, in grado di vibrare, nella cassa. L’esperimento diede qualche buon risultato, ma andava perfezionato. John però capì subito di essere sulla strada giusta.

In seguito ad alcuni mesi di lavoro nacque la chitarra resofonica. Una creatura bizzarra, metà legno metà metallo, con tre coni risuonatori in grado di garantire un’amplificazione più forte. E un suono del tutto nuovo.

John la battezza la «National», ma il mondo imparerà a conoscerla successivamente come la Dobro, dalle iniziali di Dopyera Brothers. 

Questa chitarra costa un po’ di più delle Stella, ma resta comunque più abbordabile di altri modelli.

Quando sui tasti delle National i primi bluesman inizieranno a far svicolare il bottleneck, di vetro o di metallo, dando vita al suono glissato dello slide, inventeranno un vero e proprio marchio di fabbrica di questo tipo di blues rurale, reso celebre dalle registrazioni di maestri come Bukka White e Son House.

Tampa Red e gli altri

La storia vuole che il primo a registrare con una chitarra resofonica sia stato Tampa Red quasi un secolo fa: era il 1928. 

Strano bluesman per i nostri stereotipi, con i capelli rossicci, il volto tondeggiante e la carnagione chiara, Tampa Red è una sorta di anello di congiunzione non solo tra il blues rurale delle origini e quello più evoluto, urbano ed elettrico di Chicago, ma anche tra il blues e il rock’n roll.

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Giunto a Chicago diversi anni prima di Muddy Waters, la vita di Tampa Red attraversa tutto il Novecento. Si è spento nel 1981, dopo un’esistenza segnata da registrazioni, concerti, lutti e dipendenze dall’alcol.

Quattro anni dopo la sua morte, la Dobro torna prepotentemente all’attenzione del pubblico mondiale. Compare infatti nella copertina del quinto, fortunatissimo album in studio dei Dire Straits, Brothers in Arms.

A usare questo strumento particolare che vanta ormai un secolo di storia non è stato soltanto Mark Knopfler, che proprio su una National con accordatura aperta ha scritto la nota Romeo and Juliet. 

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Anche grandi nomi del rock mondiale hanno usato delle Dobro: tra questi Jimmy Page, Eric Clapton e Rory Gallagher, altro artista cresciuto alla scuola di Leadbelly e Muddy Waters.

Uno sguardo al passato per leggere nel nostro presente

Ho voluto rendere omaggio a queste chitarre e agli uomini che le hanno create perché, in un’epoca ipertecnologica come la nostra, conservano l’eco di un mondo sommerso, forse irrimediabilmente perduto ma sempre pieno di fascino. 

Un mondo di artigiani, immigrati, liutai di bottega, musicisti di strada, bevitori, donnaioli, predicatori e attaccabrighe. Di talenti cristallini, chitarristi senza fronzoli, storyteller diretti, espressivi, attenti alla resa delle loro esecuzioni e a un certo tipo di immagine da presentare al proprio pubblico. Quel pubblico la cui attenzione andava catturata sin dalle primissime note.

«The blues are the roots», diceva Willie Dixon. E in queste radici possiamo trovare ancora oggi una verità intatta, un linguaggio universale nato dall’altra parte dell’Oceano, ma così aperto e permeabile da diventare parte del nostro stesso DNA.

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Alberto Rezzi